Siamo tutti fratelli (3)

Si prova un senso di grande sollievo quando si sente una frase così piena, rassicurante, perentoria: «Siamo tutti fratelli». “Siamo”: dunque mentre enunciamo la consolante verità, prendiamo atto che ci siamo dentro anche noi. Diciamo qualcosa di consolante che, appunto, ci riguarda. E poi quel trionfante “tutti”. È come un invito a prendere atto che proprio niente e nessuno è escluso dalla universale fraternità. Mentre affermiamo di essere “tutti fratelli”, immediatamente ci nasce un sospetto: ma siamo proprio fratelli e, soprattutto, lo siamo tutti? Per cui il senso della frase oscilla immediatamente fra due opposti: fra la presa d’atto e l’auspicio, fra l’essere e il dover essere. Siamo fratelli, dobbiamo essere fratelli. Siamo tutti uomini, condividiamo tutti lo stesso destino, dobbiamo vivere quello che siamo: viviamo dunque da fratelli. Tuttavia non ci riusciamo: un’infinità di differenze ci divide, tutte le relazioni sono inquinate, quelle corte (delle famiglie e delle parentele più strette) e quelle lunghe (dei rapporti politici e delle relazioni tra i popoli). In effetti, a ben pensarci, se diciamo che dobbiamo essere fratelli, vuol dire che non lo siamo ancora.

Fratelli nemici

Le variazioni sul tema di una fratellanza che c’è, che si sgretola, che si rovescia nel suo più radicale contrario, che può essere ricostruita faticosamente, fa parte di alcune delle immagini più classiche della nostra cultura. Si può fare riferimento alla Bibbia, in cui la fratellanza non va da sé. Al contrario, spesso sono le relazioni più strette ad essere le più burrascose: pensiamo alla coppia tragica Caino-Abele. Quando Eva genera Caino, ne commenta così la nascita: «Ho acquistato un uomo grazie al Signore» (Gen 4,1). Il Teologo André Wénin commenta a modo suo, in maniera originale, questo passaggio. Eva, con quella affermazione, «si impossessa di lui (Caino) per colmare il proprio vuoto». Il rapporto fusionale di Eva con Caino porta la madre a “dimenticare” Abele perché quel rapporto non concede spazio a un terzo. È Dio che, in qualche modo, riequilibra i rapporti tra i due fratelli, “accogliendo” Abele: «Il Signore gradì Abele e la sua offerta, ma non gradì Caino e la sua offerta» (Gen 4,4-5). Dio, di fatto, con il suo sguardo favorevole verso Abele costringe Caino ad allargare i suoi orizzonti, ad accettare anche l’altro, Abele, come fratello. Ma l’accoglienza di Abele da parte di Dio fa nascere l’invidia in Caino, il quale non riesce a superare la comoda situazione fusionale con la madre e questo lo porta a sopprimere il fratello. Alla fine, però, il rifiuto di Abele come fratello condanna Caino alla solitudine: «Io sarò ramingo e fuggiasco sulla terra e chiunque mi incontrerà mi ucciderà» (Gen 4,14). La non accoglienza di Abele diventa sventura anche per Caino. Caino e Abele sono i primi fratelli nemici. Solo i primi, perché dopo di loro vengono Esaù e Giacobbe, Lia e Rachele e poi la storia dolorosa di Giuseppe e dei suoi fratelli, nella quale esplode sia l’odio omicida dei fratelli verso Giuseppe, sia il superamento dell’odio grazie alla magnanimità di quest’ultimo.