Siamo tutti fratelli? Vivere la fratellanza oggi (1)

“Ma dai, è tuo fratello!” diciamo quando invitiamo due fratelli a perdonarsi, ad andare oltre l’offesa o il torto subìto. Con questa esclamazione richiamiamo il punto d’origine del loro legame: l’amore dei genitori che li ha generati, rendendoli figli e quindi fratelli. E ci pare scontato, doveroso, che il riconoscersi in un amore originario, unito all’aver condiviso tempo, abitudini, spazi, esperienze, possa generare, a cascata, un legame di amore e perdono capace di resistere tutta la vita. Eppure tutti conosciamo
famiglie nelle quali si sono consumate fratture insanabili: fratelli e sorelle che non si parlano più, che si sono giurati vendetta, che a volte sono persino arrivati ad odiarsi. È una delle paure più grandi dei genitori, che talvolta cercano di prevenire eventuali liti predisponendo testamenti o facendo raccomandazioni: «prometteteci che vi vorrete sempre bene». Sappiamo però per esperienza che non sempre questi desideri si avverano. Non è sufficiente condividere l’origine. È necessario che, a partire dal quel punto originario, si generi un legame nuovo, una nuova alleanza nella quale ha spazio l’individualità di ognuno: i figli devono riconoscersi fratelli. Non è scontato, non è un automatismo: è una scelta che chiama in causa la libertà e la volontà di ognuno. Vale lo stesso per la fraternità che come cristiani siamo invitati ad incarnare: siamo figli amati dello stesso Padre, fratelli in Gesù; ci riconosciamo nella storia di un popolo, condividiamo la Parola e la mensa, ci è data la missione di abitare il mondo costruendo legami fraterni. Eppure, se vogliamo essere sinceri, dobbiamo ammetterlo: «siamo tutti fratelli» rischia di rimanere una frase bellissima ma vuota. La pronunciamo e ci pare di sentirci meglio, l’abbiamo imparata a catechesi, dove magari abbiamo anche disegnato un girotondo di omini colorati che si tengono per mano.