Siamo tutti fratelli? Vivere la fratellanza oggi (3)

Proviamo a suggerire alcune attenzioni perché la fraternità diventi uno stile nella nostra comunità e nella nostra vita.

Impariamo a chiedere aiuto. Tutti abbiamo bisogno dell’altro, nessuno si salva da solo. Liberiamoci dal dover dimostrare di essere autosufficienti, non temiamo di mostrare le nostre fragilità, le nostre debolezze e i nostri bisogni, mettiamo la nostra vita nelle mani degli altri. Vale la pena di rischiare.

Gli affari degli altri. La paura di “farci gli affari degli altri”, o il timore che gli altri pensino che stiamo curiosando nella loro vita, spesso ci blocca. Siamo sinceri: il rispetto della privacy spesso diventa un alibi, una nobile giustificazione al nostro immobilismo. Prendiamo coraggio e chiediamo: «Come stai? Hai bisogno?». Se nasce dal desiderio di prendere per mano un fratello o una sorella, se è il posarsi di uno sguardo d’amore, questa domanda non è mai fuori posto: non ci stiamo facendo gli affari degli altri, ci stiamo interessando della vita di un nostro fratello, stiamo cercando spazio nel suo cuore e nella sua casa, e gli stiamo offrendo spazio nella nostra.

Crediamoci. Non stanchiamoci di credere in un mondo dove è possibile vivere come fratelli, dove è possibile creare legami che sappiano andare oltre il proprio tornaconto personale, che non servano per alimentare solo il proprio benessere. Sappiamo bene che di fronte ad alcune sfide non possiamo fare nulla da soli: non riusciamo a costruire un mondo più giusto, non siamo in grado di abitare con rispetto la Terra che ci è data in custodia, non riusciamo a realizzare la solidarietà. Da soli non riusciamo neppure a costruire noi stessi: perché è l’incontro con l’altro che definisce la nostra identità. Non lasciamoci prendere dal fatalismo e facciamo la nostra parte. Costruiamo il Regno.

Lasciamoci sconvolgere. A volte serve uno shock, e la vita non ce li risparmia! L’incontro con una situazione di estrema povertà, il dolore acuto in uno sguardo, una malattia, un lutto, una testimonianza che ci turba: lasciamo che questi episodi risveglino la coscienza a volte intorpidita e innestino cambiamenti nelle abitudini. La povertà, il dolore, la fragilità, mettono in crisi le nostre certezze e scuotono le nostre coscienze: cogliamoli come un momento di grazia! Sono un’occasione per uscire da noi stessi e tornare a vedere l’altro, immagine dell’Altro.

In servizio. Il servizio è uno stile, non un compito da eseguire: non deleghiamolo agli uffici preposti. Non si tratta solo di essere efficienti e di formare buoni operatori, ma di far proprio lo stile di ascolto del prossimo. Può sembrare scontato, ma nella prassi spesso è così: l’obiettivo è educare ad un ascolto autentico dell’altro. È un cammino.

Tutti! Non perdiamo troppo tempo a chiederci: chi è mio fratello? Ci è stata semplificata la vita, semplicemente ricordandoci che siamo tutti fratelli. Tutti. Quel tempo, quelle energie, investiamole nel fare passi che vadano incontro a chi abbiamo vicino, tenendo la porta aperta a chi arriva da lontano. Quante volte inneschiamo meccanismi di giudizio, di difesa, di salvaguardia, e prendiamo le distanze! Ricordiamoci che Gesù è andato incontro a tutti. E i discepoli a volte non erano d’accordo. Ma hanno continuato a seguirlo. Certo, ci viene chiesto molto. Ma nessuno ha mai creduto che incarnare il Vangelo fosse comodo. Ed è vero, sono tempi duri per la fratellanza, ma noi sappiamo che il Signore continua a fidarsi di noi. Fidiamoci di lui.

Siamo tutti fratelli? Vivere la fratellanza oggi (2)

Ci viene ricordato nel corso della messa, quando veniamo chiamati fratelli e sorelle. Lo affermiamo quando preghiamo il Padre nostro e riconosciamo che Dio è, appunto, Padre nostro, non mio o tuo. Poi la messa finisce, oppure usciamo dall’aula di catechesi, e il rischio è che queste parole diventino astratte. Perché anche questo non è un automatismo. Un conto è dire che è importante amare i propri fratelli, un conto è dare corpo alle parole, viverle, incarnarle: sulle strade della vita entrano in gioco la nostra libertà e la nostra volontà. E quando al fratello diamo un volto, la vita si complica: perché nostro fratello è il vicino, il figlio, l’amico che ci siamo scelti… ma anche il collega scorretto, il vicino dispettoso, il parrocchiano puntiglioso e, allargando l’orizzonte, il profugo che sbarca «e ruba lavoro ai nostri», il carcerato che soffre «ma in fondo gli sta bene, con quello che ha fatto», il povero che chiede l’elemosina «ma hai visto che ha un telefono più bello del mio?», la conoscente che non ci risparmia una critica dopo l’altra, «e allora la ripago con la stessa misura». La fratellanza è entusiasmante e faticosa allo stesso tempo: l’altro è colui che ci sfida a uscire da noi stessi, ci fa prendere il volo, ma è anche colui che ci disturba, ci provoca, ci turba. Più è diverso da noi, più ci spaventa: mina le nostre sicurezze, le nostre certezze. Con l’altro entriamo spesso in conflitto, fa parte della nostra umanità. Ma fa parte della nostra umanità anche lo slancio d’amore verso l’altro! Possiamo andare incontro all’altro, custodirlo, fare nostra la tensione che porta a desiderare per l’altro, chiunque esso sia, una vita degna; possiamo riconoscere in ognuno un figlio amato e perdonato, come lo è ognuno di noi. Non si tratta di obbedire ad una regola, né di considerarlo solo come proprio dovere, ma di assumerlo come uno stile di vita: si tratta del modo in cui il nostro sguardo si posa sull’altro. Perché amare i fratelli non è un compito da assolvere, è l’essenza del cristiano. Amare il prossimo e amare Dio non sono due strade diverse: amiamo Dio nel nostro prossimo, nel nostro fratello. Questa è la strada. Altrimenti Dio non lo incontriamo, non lo conosciamo, non lo frequentiamo. Non lo amiamo.

Siamo tutti fratelli? Vivere la fratellanza oggi (1)

“Ma dai, è tuo fratello!” diciamo quando invitiamo due fratelli a perdonarsi, ad andare oltre l’offesa o il torto subìto. Con questa esclamazione richiamiamo il punto d’origine del loro legame: l’amore dei genitori che li ha generati, rendendoli figli e quindi fratelli. E ci pare scontato, doveroso, che il riconoscersi in un amore originario, unito all’aver condiviso tempo, abitudini, spazi, esperienze, possa generare, a cascata, un legame di amore e perdono capace di resistere tutta la vita. Eppure tutti conosciamo
famiglie nelle quali si sono consumate fratture insanabili: fratelli e sorelle che non si parlano più, che si sono giurati vendetta, che a volte sono persino arrivati ad odiarsi. È una delle paure più grandi dei genitori, che talvolta cercano di prevenire eventuali liti predisponendo testamenti o facendo raccomandazioni: «prometteteci che vi vorrete sempre bene». Sappiamo però per esperienza che non sempre questi desideri si avverano. Non è sufficiente condividere l’origine. È necessario che, a partire dal quel punto originario, si generi un legame nuovo, una nuova alleanza nella quale ha spazio l’individualità di ognuno: i figli devono riconoscersi fratelli. Non è scontato, non è un automatismo: è una scelta che chiama in causa la libertà e la volontà di ognuno. Vale lo stesso per la fraternità che come cristiani siamo invitati ad incarnare: siamo figli amati dello stesso Padre, fratelli in Gesù; ci riconosciamo nella storia di un popolo, condividiamo la Parola e la mensa, ci è data la missione di abitare il mondo costruendo legami fraterni. Eppure, se vogliamo essere sinceri, dobbiamo ammetterlo: «siamo tutti fratelli» rischia di rimanere una frase bellissima ma vuota. La pronunciamo e ci pare di sentirci meglio, l’abbiamo imparata a catechesi, dove magari abbiamo anche disegnato un girotondo di omini colorati che si tengono per mano.

La fraternità e l’ingombro

Il termine “fraternità” mi fa venire in mente un libro il cui autore era il noto consigliere politico di François Mitterrand,  Jacques Attali. Libro pieno di intuizioni e di spunti originali e stimolanti. Ragionando sulle caratteristiche della rete (eravamo nel 1999 e non c’erano ancora né Facebook, né Twitter e tanto meno Instagram), Attali arrivava ad affermare che la vera ricchezza del futuro sarebbe stata la ricchezza dei legami. «In passato essere poveri era non avere, in futuro sarà non appartenere.

Per soccorrere il debole bisognerà, di conseguenza, collegarlo a delle reti». Le affermazioni di Attali riguardavano il mondo spettacolare della rete che si è ulteriormente ingigantito negli anni più vicini a noi. Quel mondo trova la sua ricchezza nell’aprirsi, non nel chiudersi. L’unico vero pericolo, per la rete, è di non poter comunicare: «Il peggior nemico della fraternità è l’ingombro», diceva Attali: l’ingombro impedirebbe, appunto, di collegarsi e di comunicare. Quell’immagine di un mondo che si arricchisce solo aprendosi, che muore chiudendosi, è un’immagine stimolante per la comunità cristiana. Più la comunità cristiana è preoccupata di salvaguardare la propria identità “all’interno”, più fatica ad aprirsi. È vero che “siamo tutti fratelli” ma ad una semplice condizione: che quella fraternità ecclesiale non sia la versione ecclesiale della maternità fusionale di Eva, che quindi sia davvero, e totalmente, priva di ingombri.

La faticosa fraternità

Le storie bibliche di fraternità conflittuali, da una parte, e costruite con la saggezza e la parola giusta dall’altra, rimandano a temi che sono sempre di attualità. Un luogo comune nel sentire corrente delle comunità cristiane è l’enfasi sullo spirito che deve animare la comunità, sull’unità che deve essere alla base di ogni esperienza: bisogna essere uniti, bisogna stare insieme, evitare discussioni e contrasti…

L’ideale ultimo della comunità cristiana, in quest’ottica, è una fraternità senza ombre e senza differenze. Le differenze fanno paura e l’ideale, implicitamente suggerito, non è affrontarle con coraggio e viverle con maturità, ma negarle.  È l’ideale di Eva: «Ho acquistato un uomo grazie al Signore». Non solo Eva ha ridotto Caino a oggetto di possesso, ma ha giustificato quella manomissione attribuendola a Dio

stesso. Molti atteggiamenti ricorrenti nella Chiesa di oggi sono eccessivamente materni, possessivi, inclusivi. Sono atteggiamenti che partono, spesso, da esigenze di comprensione, di perdono e di accoglienza, ma portati all’estremo finiscono in un abbraccio talmente stretto che toglie la libertà. È la fraternità che si confonde con una maternità possessiva, di una madre che preferisce conservare in grembo i propri figli piuttosto che “metterli al mondo”. Si ammira la straordinaria intuizione di Dostoevskij.

Nel racconto del Grande inquisitore, questi rimprovera a Gesù di non aver accettato l’invito del demonio a trasformare le pietre in pane, nelle grandiose tentazioni nel deserto. Se Gesù avesse accettato, tutti gli uomini lo avrebbero seguito, come “un docile gregge”. Invece Gesù ha rifiutato e così facendo ha condannato l’umanità alla fatica di dover decidere, di dovere esercitare la propria insopportabile libertà. «Avevi forse dimenticato che la tranquillità e perfino la morte è all’uomo più cara della libera scelta fra il bene e il male?», chiede enfaticamente il grande inquisitore a Gesù . Nel “docile gregge” del grande inquisitore non ci sarebbero state differenze e contrasti, ma il prezzo da pagare sarebbe stato altissimo: quello, appunto, di essere tutti, soltanto, un gregge.

Venite, saliamo al monte del Signore

La vicenda umana sta tentando di distruggere il tempio, di fare a meno della sua elevazione a Dio, di costruirsi cioè un tempo vuoto di Dio, senza Dio e talora anche chiaramente determinato contro ogni ipotesi di Dio, contro ogni ritorno a Dio. Ma questa vicenda umana fatta di tempo senza Dio è una vicenda che non può procedere. La rinuncia al tempio è per l’uomo la rinuncia a vivere, è il tempo della vita sconsacrato; è un tempo che inutilmente si vive. Sarebbe opportuno un ritorno con  le proprie speranze e attese, i propri desideri, sogni e progetti, al senso sacrale e profondo della vita. Senza Dio non ha senso vivere, non ha senso desiderare la verità, desiderare la felicità, desiderare la giustizia. Non ha senso nulla.

Il nostro tempo deve essere nuovamente consacrato al Signore, per salire all’origine di tutto e al senso di tutto, che rimane Dio solo.

La vita non consacrata in Cristo perde rapidamente il suo senso. Soltanto la vita consacrata in Cristo diventa capace di produrre la persona giusta, il tempo della pace, l’èra della giustizia, la speranza nella bontà. Ecco il nostro camminare verso il monte di Dio: stiamo riconsacrando la vostra vita, fedeli al tempo di Dio

Una comunità cristiana innamorata del cielo

Potremmo vivere questo periodo, della pandemia, come una ripartenza per conoscere meglio Gesù Cristo. Quanti desideri legittimi o prospettive auspicabili nella vita odierna, frammenti che potremmo far diventare il tutto. Certamente appartengono alla totalità della nostra vita: ma noi siamo, come ogni essere umano, una domanda totale, ricercatori del senso ultimo di tutto. Assolutizzare un frammento, gonfiare un particolare è creare degli insoddisfatti. “Cerco il tuo volto, Signore!”. Cerchiamo insieme, come comunità cristiana, Colui, unico e grandioso, che è al fondo delle cose più belle e più buone. Dove e come trovarlo?

Non sottovalutiamo, non accantoniamo immediatamente le proposte di vita cristiana che ci vengono “offerte”. Non sono altro che opportunità che danno possibilità alla voglia di immenso che abbiamo nel cuore; per la voglia di verità, non di cose o di quantità, per la voglia di sapere che esiste nella nostra mente. Riporto una poesia di un  poeta russo, morto nel 1984 a 58 anni: era in campo di concentramento da quando ne aveva 21. Ha scritto poesie incidendole con un chiodo arrugginito sui sacchi del cemento fatti a pezzi, perché il potere non gli dava neanche la carta e la penna per scrivere. Il poeta è Valentin Sokolov: “Tutti vogliono una cosa sola: strapparti la bandiera. Ti convincono che non devi combattere, tanto c’è sempre da fare, tanto: a letto, a teatro, in cucina, sull’amaca, al ristorante, nel calduccio di casa tua. E, poi, a loro sei utile per ingrossare il numero, per nascondere quel Dio che sentono e temono: a letto, a teatro, in cucina, sull’amaca, al ristorante, nel calduccio di casa tua. Ma quando in faccia gli getti il tuo scherno e libero te ne vai e bello e forte, come potranno sapere a letto, a teatro, in cucina che vi sono ancora degli uomini innamorati del cielo?”.

Noi desideriamo appartenere alla generazione degli uomini che cercano Dio. Desideriamo appartenere alla generazione degli uomini a cui non bastano le cose, ma vogliono il senso delle cose. Mi augurio che nella comunità cristiana possiate trovare l’opportunità di incontrare Gesù Cristo, quale risposta alle domande. La parrocchia ne parla come della grande presenza nella vita ordinaria e quotidiana, perché in Lui abbiamo trovato risposta alla voglia di immenso.

Proviamo a fare un passo in avanti per cercare di definire meglio questo desiderio. Dio entra nel discorso umano come una parola, ma poi diventa una presenza, una compagnia. Quanto viene proposto non vuole essere una verità astratta: la voglia di immenso, è la voglia di un “tu”, di un’amicizia, di uno che sta dinanzi alla nostra grandezza e alla nostra povertà; di uno che ci prende come siamo, con il grande desiderio di vita che abbiamo dentro.

La liturgia è una danza

In questo periodo ci si è sentiti un po’ privati delle feste che forse eravamo abituati a fare con tante persone, con familiari, con amici. Però, nell’ambito della nostra fede, non siamo stati privati delle feste cristiane. Dopo le festività natalizie mi viene spontaneo rivolgere questo invito a tutta la nostra comunità parrocchiale: recuperiamo il senso cristiano della festa.

Vorrei proporvi, non imporvi, quello che ritengo sia la vera festa cristiana di cui tutti noi, nel proprio della nostra scelta religiosa, siamo i veri esperti: la liturgia. Le nostre celebrazioni dovrebbero avere l’abito della festa. In questo clima riusciamo a vivere o riscoprire la ricchezza che ci è data dalla liturgia: essa è una danza! A volte in essa si piange, si deve infatti anche piangere nella liturgia e a volte si loda con gioia, ma sempre c’è festa. Diventa necessario che insieme ci impegniamo non per cercare soluzioni alternative, ma per rendere al meglio quello che di meglio già abbiamo: le nostre liturgie siano festose e la nostra vita sia una danza, cioè una liturgia. Sono così numerosi i cristiani dal volto chiuso, teso, scavato dalla tristezza che opprime e separa dagli altri!

Guardiamo la Chiesa di Cristo che ha organizzato e organizza feste da sempre attorno alla famosa tavola che le ha trasmesso il suo caro Signore. È la divina liturgia, a volte una finestra del cielo, con i suoi canti, le sue danze, la sua musica e i suoi fiori, il suo incenso e i suoi ceri. Disprezzarla o sottovalutarla sarebbe negazione pura e semplice della natura umana e del fatto dell’Incarnazione di Dio. A tutti coloro che affaticano a vivere la liturgia cristiana auguro di incontrare spesso dei volti di festa di persone che non solo hanno assistito a delle liturgie, ma che ne sono stati talmente coinvolti da trasmetterne la gioia e il canto di lode. Ci auguriamo di ritrovate il gusto delle celebrazioni liturgiche, in modo particolare dell’Eucaristia, e vivere, sempre più numerosi, la bellezza della festa cristiana.

Pregare “serve” a qualcosa?

Penso tutti noi siamo consapevoli di quanto si importante e necessario pregare. E come la preghiera sia la fonte della comunità cristiana. Ecco perché diventa importante, oltre alla celebrazione dell’Eucaristia, inserire all’interno del cammino pastorale, momenti di preghiera, celebrazioni, veglie, adorazioni, novene comunitarie. Pregando insieme si diventa comunità. Pregare è cambiare il proprio sguardo sulla realtà a partire dall’Eterno.

La preghiera, oggi, non gode di particolare notorietà, siamo onesti. E non solo fra chi si dichiara non credente, in ricerca, o dubbioso, cosa peraltro comprensibile e legittima, visto che, in genere, considera la preghiera come un’inutile perdita di tempo, quando va bene. Ma anche fra chi si professa cristiano, fra chi vive con semplicità e onestà il Vangelo, fra chi si è messo alla sequela del Nazareno. Pregare non va di moda. Le obiezioni che si rivolgono alla preghiera sono innumerevoli e degne di attenzione. Le persone faticano a pregare per molte ragioni, alcune molto complesse e di difficile valutazione, altre più intuitive e immediate. Eppure, penso, che la nostalgia sia tanta. Nostalgia che emerge prepotente quando si coagula intorno ai luoghi di spiritualità che radunano migliaia di persone disposte a mettersi in ascolto, a fare silenzio, a interrogarsi, a pregare. Mi domando: forse in parrocchia non si trova sufficiente nutrimento delle vere e proprie  oasi di interiorità?

Il volto di Dio sui sofferenti e sui gioiosi

Il volto di Dio mostra vari lineamenti amorevoli che la rivelazione biblica trasmette e che sono espressione tangibile di quanto la capacità che ha l’uomo di amare sia strettamente legata all’amore di Dio creatore.

La carità, infatti, consente il reciproco scambio di amore benevolo tra Dio e l’uomo e dell’uomo con l’altro uomo. Quando l’uomo si apre alla grazia di Dio, all’abbondanza che si riceve dalla carità, impara a saper scorgere dietro ogni volto umano il volto di Dio e allora lo trova realmente. Cristo, infatti, si è identificato con l’uomo, soprattutto quando questi porta i segni della sua passione. Ma Dio non è soltanto nel povero e nel sofferente: è in tutti quelli che ci sono accanto e che condividono il nostro quotidiano, anche quelli che sono nella gioia, perché l’amore ama l’altro per se stesso, per quello che è, non per la sua condizione, ma per il fatto che esiste e che porta in sé l’alito di Dio, la vita che gli è stata donata da Dio stesso.