La pandemia ha contagiato anche la nostra parrocchia con le sue attività e proposte sempre pensate e realizzate con impegno e generosità.
Ora sappiamo che non basta far passare questo tempo difficile, vaccinarci e ritornare a quello che si faceva prima, sarebbe come nuotare contro corrente verso una riva che è stata lasciata per sempre. La sfida è come arrivare e abitare la nuova riva.
Occorre preparare il futuro e non prepararsi per il futuro. C’è, giustamente, un pensiero e una preoccupazione per ciò che non siamo riusciti a fare, la riduzione delle attività, le chiusure di ambienti e strutture, l’insufficienza degli incontri formativi. Ma attenzione a non percepire il rischio che la Parrocchia corre se spreca questa occasione per un ripensamento radicale circa il suo essere e il senso della sua presenza. Peggio di questa crisi c’è solo il dramma di sprecarla.
Per quanto riguarda il suo essere.
La pandemia, nella sua drammaticità, potrà essere una opportunità per un parto, sempre doloroso, ma fecondo, nell’essere Chiesa che ritorna alle origini, al Vangelo, alla vita delle prime comunità cristiane.
Facciamo scaturire dalla vita una nuova forma di essere Chiesa serva della vita, della Parola, dei Sacramenti, generatrice di umanità, di vicinato e di fraternità La necessità di restituire alla famiglia, domus ecclesiae, una dimensione sacrale e
cultuale. Accogliamo questo tempo di pandemia per animare la famiglia come “Chiesa domestica”, come ci insegna il Concilio. Chiesa domestica aperta che, nella semplicità dei suoi membri, fa rinascere attraverso i genitori il sacerdozio dei fedeli, dono del Battesimo e del Matrimonio, con proposte molto semplici.
Per quanto riguarda la sua presenza.
La nostra terra è piena di incontri e storie da salvare. Solo quando non se ne parla più il ricordo di una persona si perde. Deve diventare per la nostra pastorale un’attività che ci modella: la vita degli altri cambia la mia. Nelle vite degli altri si trova sempre qualcosa di straordinario, che ci riguarda, ci appartiene anche se non l’abbiamo vissuto noi e ci arriva dritto al cuore. Le vite degli altri servono a mettermi davanti esperienze e percorsi lontani da me, a fammi scoprire le infinite risorse che ho e che abbiamo, e la fortuna che ho e che abbiamo. Mi fanno accorgere che posso rinunciare a qualcosa che mi pareva necessario … e che mi è indispensabile qualcosa a cui non avevo dato valore. Mi costringono a cambiare, con gentilezza, senza strappi. Non ci sono vite scialbe o insignificanti e se ci pare così, forse è meglio tirare tutto all’aria come quando si fanno le grandi pulizie. Siamo storie da correggere, da sottolineare, da continuare a scrivere, da amare.
Anche la pandemia, anche i disagi, possono diventare creativi ed essere trasformati in opportunità. Nel libro del profeta Geremia si legge che Gerusalemme è prossima a cadere, sta per essere distrutta, e verrà distrutta. Proprio nel cuore della catastrofe Dio pronuncia questa parola: “Eppure!”. Sembra la fine, è la fine, eppure Gerusalemme “sarà ricostruita sulle sue rovine”. Questa congiunzione non è un ponte che unisce due sponde stabili, è piuttosto una sottile passerella, capace tuttavia di congiungere l’impossibile, di farci camminare, pur tremanti, sopra l’abisso, verso un futuro di vita che ritenevamo ormai perduto. “Eppure” è la parola che manda in frantumi l’impossibile, che spazza via gli ostacoli, che crea l’avvenire. La parola che accetta lucidamente le difficoltà, le insidie, le barriere e le polverizza con la speranza. Eppure sarà l’agire della nostra comunità Parrocchiale, a partire, con l’aiuto e sotto la protezione di san Floriano, nostro Patrono.