Già le due domeniche precedenti, poi questa e le prossime due, nella seconda lettura della Messa vengono proclamate per l’ascolto e la meditazione, alcune parti della Lettera di Giacomo apostolo.
Uno scritto umile e trascurato, eppure di immensa praticità. È un testo tutt’altro che secondario e scontato, tocca problemi urgenti e concreti, si impone per la sua viva attualità.
Viene da domandarsi perché questo scritto sia stato trascurato (nella Liturgia della Parola domenicale, ad esempio, se ne leggono solo brevi brani in queste Domeniche del Ciclo B e un passo nella Terza Domenica di Avvento del Ciclo A), snobbato, guardato con diffidenza, accolto nel Canone dopo molte resistenze e perfino contestato.
So benissimo che i motivi addotti sono: non si parla quasi mai di Cristo (solo due volte) e non si accenna alla sua passione e risurrezione, né al suo Spirito. Sembra contraddire apertamente il nucleo centrale, lo zoccolo duro della teologia di Paolo, il quale sostiene che è la fede che salva, non le opere, mentre l’autore di questa Lettera, dichiara che l’uomo viene giustificato dalle opere, e non solo dalla fede.
Difficile, poi – quasi un’impresa disperata – rintracciare un filo conduttore, mettere in evidenza un impianto unitario e armonico che conferisca una certa coesione a questo scritto: vi si scopre soltanto una successione, apparentemente disordinata, slegata, di temi, anzi una sovrapposizione di argomenti diversi.
Pur riconoscendo questi motivi, può forse essere che sia la semplicità di questa lettera a risultare inquietante e a renderla poco gradita a certi palati raffinati?
Il fatto è che si amano le complicazioni, il problematicismo contorto, esasperato e compiaciuto.
Si ritiene di essere pervenuti, nel corso del cristianesimo, a livelli superiori, mentre questo Giacomo insiste a ficcarci in testa l’abbicì della religione, i rudimenti della fede, tutte cose che forse ci sembrano scontate. Inoltre Giacomo ci dice, a muso duro: “devi” e basta. Non è disposto a fare concessioni, praticare riduzioni, scendere a compromessi. Per lui il cristianesimo è questo e non altro.
Forse la cosa più difficile è che per lui il cristiano è uno che fa, non uno che chiacchera e discute continuamente in maniera disimpegnata. Giacomo è un tipo pratico, che bada alla sostanza, va al sodo, punta sull’essenziale, senza perdersi in astrattezze e fumisterie e divagazioni accademiche.
Il suo scritto si caratterizza per la concretezza e la praticità. Lui non sopporta un cristianesimo parolaio, che si consenta furbastre evasioni nelle discussioni futili e nelle polemiche inutili oltre che dannose.
In questo anno pastorale, nella geografia della salvezza, dove metteremo in evidenza il segno della Strada, Giacomo obbliga il cristiano alla concretezza della vita, lo mette in strada. Ed è lì che vuole vederlo, esaminarlo, per accertare la sua identità, riconoscere il suo volto, verificare la qualità e la robustezza del suo impianto di fede. Giacomo non tollera la dissociazione tra fede e vita, tra dire e fare, tra pensieri e azioni, tra attenzione a Dio e sensibilità per il volto del prossimo.
C’è da rilevare che questa Lettera, pur collocata in un contesto storico e sociale piuttosto remoto, appare di grande attualità e conserva una sua carica provocatrice – quasi esplosiva – per la Chiesa del nostro tempo. Questo testo non pone – salvo rare eccezioni – grosse difficoltà di traduzione. Il grosso sforzo che richiede, invece, è quello di calarlo nella realtà odierna, scoprirne le indicazioni per il mondo d’oggi, allargarne gli orizzonti. Ritengo che di questo testo ne abbiamo un estremo bisogno.
Esso può illuminare la nostra vita. Forse è in grado di causare provvidenziali scottature.
Suggerisco di prenderlo tra le mani, farne una lettura e meditazione personale.
Si tratta di pochi capitoli, non ci porta via eccessivo tempo