Non è registrata nel catalogo ufficiale delle virtù, per cui la sua scomparsa non viene segnalata da nessuno. Non è possibile lamentare la perdita di qualcosa che non esiste. I Santi sono stati degli stupefacenti improvvisatori, dei campioni di imprevedibilità. Basti pensare a un Francesco di Assisi, Camillo de Lellis, Filippo Neri, Massimiliano Kolbe, papa Giovanni XXIII, Teresa di Calcutta. Lo Spirito suggeriva loro gesti, comportamenti, iniziative, atti che non erano registrati in nessun “prontuario”, ma risultavano, appunto, imprevedibili, impensabili, fuori da tutti gli schemi. Per cui questi “ispirati” deragliavano abitualmente dai binari delle abitudini, insoliti.
Perché scocchi la scintilla che determina lo scoppio dell’improvvisazione è necessaria una miscela fatta di inventività, coraggio, libertà, intuizione, duttilità, colpo d’occhio, tempestività. È la capacità di non tentennare, di non indugiare davanti a qualsiasi situazione. Non indietreggiare. Si potrebbe collegare l’improvvisazione con la facilità o la faciloneria. Non è una virtù facile da praticare, l’improvvisazione. La vita di tutti i giorni abilita alla velocità e alla sveltezza. Ma è tutt’altra cosa rispetto alla prontezza e all’improvvisazione.
La velocità è figlia dell’abitudine a svolgere un compito o un’azione. La prontezza nasce invece da una costante attenzione allo scorrere della vita. Solo chi è pronto può fermarsi al momento giusto e agire al di fuori degli schemi abituali e delle convenzioni sociali. Poi sono venute l’organizzazione, la programmazione esasperata e compiaciuta, la ripetitività, la rigida fissazione delle competenze. Sono venuti gli orari inflessibili, le norme precise, i bilanci. Sono venuti i moduli, le schede, i test, le diagnosi di ogni tipo.
Altrettanti nemici decisi a soppiantare l’improvvisazione, ad azzerare l’imprevedibilità. Intendiamoci. Lo so benissimo che, specialmente nella società complessa di oggi, ci vuole un minimo di organizzazione, di programmazione, e si rende necessario impiantare delle strutture, impostare degli apparati. I guai si verificano – e stanno sotto i nostri occhi – quando la programmazione esasperata, lo schematismo ottuso, l’apparato esteriore troppo imponente, la burocratizzazione, uccidono la spontaneità, soffocano la vita. Allorché il funzionamento diventa funzionalismo, gli ordinamenti prendono il sopravvento su tutto, la razionalità impassibile non permette al cuore di uscire allo scoperto. Certa carità burocratica, impersonale, impassibile, funzionale, neutra, regolata da criteri amministrativi, da schemi psicologici, da teoremi sociologici, è tutto meno che carità. C’è bisogno di umanità, di naturalezza, di calore, di partecipazione personale.
C’è bisogno di improvvisazione. Ci aspettiamo tutti … l’imprevedibilità.
Se apriamo il Vangelo, scopriamo che le sue pagine sono fitte di improvvisatori, capaci di compiere gesti all’insegna dell’imprevedibilità. Basti pensare a Zaccheo, alla donna dei profumi, all’emorroissa, all’amministratore disonesto della parabola … Ma c’è soprattutto una figura che si impone fra tutte: il Samaritano. Lui si rivela uno straordinario improvvisatore. Ed è proprio la sua capacità di improvvisazione che lo distingue dall’atteggiamento “assenteista” adottato dal sacerdote e dal levita. Costoro erano abitudinari, ripetitivi, inflessibili programmatori della loro vita e perfino dei loro gesti religiosi. Procedevano per schemi, secondo moduli predefiniti. E in quegli schemi non c’era spazio per il gesto estemporaneo, fuori dalle regole codificate. Camminavano lungo la strada come su binari, seguendo un programma di viaggio stabilito in partenza. Orari, scadenze, velocità di crociera.
Tutto già calcolato. In quel programma non era prevista la sosta, l’interruzione improvvisa dell’itinerario. Non era contemplato l’imprevisto. Il Samaritano, lui, è stato uno stupefacente improvvisatore. Ha accettato la provocazione dell’intruso, il richiamo dell’estraneo, inserendo una variante nel suo programma di viaggio, inventando una sosta non contemplata.