Vendita torte pro-missioni

Il gruppo missionario parrocchiale, in occasione della Giornata Mondale Missionaria, organizza, Sabato 22 nel pomeriggio e domenica 23 ottobre, nella chiesina, una vendita di torte caserecce, pro – missioni.
Le cuoche, possono preparare tante torte buonissime e donarle per questa lodevole iniziativa. Le torte si possono portare in parrocchia nella mattinata di sabato 22 ottobre. Grazie mille.

Missionari a casa nostra. Questa è la vera novità?

Così titolava Vittorio Messori una sua riflessione di stampo direttamente  missionario. Certamente è un emblematico commento allo slogan “se io parto, tu non devi restare”. Se c’è un missionario che parte, ci deve essere altresì una Comunità cristiana che mantiene l’occhio vigile sui fenomeni di paganesimo che ci circondano. Pochi cristiani lo hanno avvertito, ma la Chiesa in questi ultimi decenni si è data una nuova definizione, cioè si è definita come Chiesa missionaria: tutta la Chiesa è missionaria!
Il mondo “pagano” che una volta eravamo soliti pensare lontano e per la cui conversione si faceva appello ad anime generose di missionari disposti fino al sacrificio del martirio, ora, quel mondo ce l’abbiamo a fianco, nella nostra di casa, anzi ce l’abbiamo addirittura presente in casa, anche tra i membri di rispettabili famiglie cristiane.
È un invito a tutti i cristiani, a quei tanti cristiani che già lodevolmente animano le nostre comunità, a fare la proposta cristiana e compiere così il meraviglioso impegno della missione.
Ci è chiesto di compiere la missione ad gentes anche qui, nelle nostre terre.

Pozzi senz’acqua

C’è un proverbio africano che recita: “un villaggio senza anziani è come un pozzo senz’acqua”.
Abbiamo bisogno che l’anziano ritrovi il suo prestigio e ritorni ad essere memoria di vita, abbiamo bisogno che ogni anziano nella fede diventi messaggero di speranza e staffetta di fede per il suo prossimo.
Perché non mettere in moto il Fuoco della Missione tra i nostri comuni cristiani?
Ogni cristiano si prenda cura della conversione di una persona che poi nella fede diventerà il suo vero fratello e il mondo sarà presto migliore.
Donare la fede è come donare gioia e la gioia sempre si moltiplica e mai si assottiglia.
Ci sono tante persone a cui “sta a cuore la missione” per la gente lontana; ma dobbiamo invogliare più persone possibili a lasciarci coinvolgere dal Fuoco della Missione tra coloro che vivono tra noi senza speranza. Dobbiamo rilanciare questo slogan “un cristiano per un altro cristiano”, perché aprirsi all’amore di Cristo è la vera liberazione. In Lui, soltanto in Lui siamo liberati da ogni alienazione e smarrimento. Cristo è veramente la nostra Pace. Il cristiano è colui che si lascia coinvolgere da un grande amore verso il fratello: “l’amore di Cristo mi spinge”.

Giovedì eucaristico

L’Adorazione Eucaristica ha un valore tanto a livello personale, quanto vissuto in forma comunitaria. Anzi, le due espressioni dell’adorazione si richiamano a vicenda come, del resto, ogni forma di preghiera e di esistenza cristiana. Il rapporto personale che il singolo fedele instaura con Gesù, presente nell’Eucaristia, lo rimanda sempre all’insieme della comunione ecclesiale, alimentando in lui la consapevolezza della sua appartenenza al Corpo di Cristo. Perciò oltre ad invitare ciascuno a valorizzare e a trovare personalmente del tempo da trascorrere in preghiera davanti all’Eucaristia, ritengo doveroso sollecitare per promuovere momenti di adorazione comunitaria. Un’attenzione particolare va riservata ai fanciulli. Nella formazione catechistica è importante introdurre i fanciulli al senso e alla bellezza di sostare in compagnia di Gesù, coltivando lo stupore per la sua presenza nell’Eucaristia. Penso che siamo chiamati seriamente ad interrogarci sul nostro lavoro in questa direzione.
Attraverso i giovedì Eucaristici alcune persone stanno vivendo la bellezza dell’adorazione.
Nella vita di oggi, spesso rumorosa e dispersiva, è più che mai importante recuperare la capacità di silenzio interiore e di raccoglimento: l’adorazione eucaristica permette di farlo non solo intorno all’‘io’, bensì in compagnia di quel ‘Tu’ pieno d’amore che è Gesù Cristo, ‘il Dio a noi vicino’.
Madre Teresa, dal canto suo, portava la sua esperienza al riguardo: «Dove riceverete in dono la gioia di amare? Nell’Eucarestia. Nella Santa Comunione. Gesù si è fatto Pane di vita per darci la vita. Giorno e notte egli è sempre presente. Se davvero volete crescere nell’amore, sostenetevi coll’Eucarestia, coll’adorazione. Nella nostra congregazione, c’era la consuetudine di avere un’ora di adorazione la settimana e poi, nel 1973, decidemmo di avere un’ora di adorazione ogni giorno. Da quando abbiamo cominciato ogni giorno ad avere la nostra ora di adorazione, il nostro amore per Gesù è diventato più intenso, il nostro amore l’uno per l’altro più comprensivo, il nostro amore per il povero più compassionevole e abbiamo raddoppiato il numero di vocazioni».

La ricchezza del limite (2)

È fondamentale giungere a comprendere l’importanza – in noi e fuori di noi, nelle nostre relazioni – della presenza dei limiti, delle ferite, delle zone d’ombra; capire, alla luce del messaggio evangelico, che tutto ciò che del nostro ed altrui mondo interiore è segnato dall’ombra e dal limite, è l’unica nostra ricchezza, e che proprio lì è possibile fare esperienza della nostra salvezza.
Insomma, che non vi è nulla dentro di noi che meriti di essere gettato via.
Tutto può essere trasformato in grazia, persino il peccato, diceva sant’Agostino.
Se cominciamo a ragionare in questo modo, vuol dire che s’è compiuta in noi la vera conversione evangelica: abbiamo fatto nostro un pensiero “altro”, ovvero siamo finalmente giunti a non pensare più che la “purezza”, l’essenza di debolezza e di peccato, siano la nostra salvezza, ma proprio il contrario.
La salvezza, la santità, sarà finalmente renderci conto della nostra verità, ovvero che siamo feriti, limitati, fragili, ma al contempo oggetto dell’amore “folle” di un Dio che – proprio perché siamo fatti così – viene a visitarci e ad inabitarci. Il Vangelo rivela continuamente che tutto ciò che ha il sapore del limite racchiude in sé anche la possibilità del suo compimento.
Gesù dice a ciascuno di noi: “Ama quella parte di te che non vorresti avere.
Comincia ad avvolgerla con l’amore e alla fine constaterai di avere in te una perla preziosa, perché nella ferita riconosciuta, avvolta dall’amore, sperimenterai il tesoro che ti porti dentro.”
Mettere nel mezzo le nostre zone d’ombra vuol dire riconoscere da una parte la loro esistenza, e dall’altra che esse, dinanzi alla resurrezione di Cristo, non sono l’ultima parola sulla nostra umanità.
Dobbiamo deciderci se operare per la forza o per la debolezza.
La nostra inadeguatezza, la nostra debolezza, è una forza più grande di ogni altra, poiché ha la forza stessa di Dio: “Quando sono debole, è allora che sono forte” scriveva san Paolo.
Questa verità dovrebbe tornare al centro del nostro vivere cristiano.
Nei Vangeli al centro vi è sempre l’uomo nella sua malattia, nel suo essere ferito, debole e fragile.
Perciò anche al centro dell’assemblea (della comunità, della nostra famiglia, della Chiesa …), al centro del nostro vivere da cristiani non campeggiano la forza, il farcela da sé, l’osservanza ossessiva dei precetti santi, l’essere moralmente irreprensibili … ma vi è solo la nostra debolezza.

La ricchezza del limite (1)

La perla è splendida e preziosa. Nasce dal dolore. Nasce quando un’ostrica viene ferita.
Quando un corpo estraneo — un’impurità, un granello di sabbia penetra al suo interno e la inabita, la conchiglia inizia a produrre una sostanza (la madreperla) con cui lo ricopre per proteggere il proprio corpo indifeso. Alla fine si sarà formata una bella perla, lucente e pregiata. 
Se non viene ferita, l’ostrica non potrà mai produrre perle, perché la perla è una ferita cicatrizzata. 
Quante ferite ci portiamo dentro, quante sostanze impure c’inabitano? Limiti, debolezze, peccati, incapacità, inadeguatezze, fragilità psico-fisiche… E quante ferite nei nostri rapporti interpersonali?
La questione fondamentale per noi sarà sempre: cosa ne facciamo? Come le viviamo?
La sola via d’uscita è avvolgere le nostre ferite con quella sostanza cicatrizzante che è l’amore: unica possibilità di crescere e di vedere le proprie impurità diventare perle. L’alternativa è quella di coltivare risentimenti verso gli altri per le loro debolezze, e tormentare noi stessi con continui e devastanti sensi di colpa per ciò che non dovremmo essere e per ciò che non dovremmo provare.
L’idea che spesso ci portiamo dentro è che dovremmo essere in un altro modo; che, per essere accettati da noi stessi, dagli altri e da Dio, non dovremmo avere dentro di noi quelle impurità indecenti.
Vorremmo essere semplici “ostriche vuote”, senza corpi estranei di vario genere, dei “puri” insomma.
Ma questo è impossibile, e anche qualora ci considerassimo tali, ciò non significherebbe che non siamo mai stati feriti, ma solo che non lo riconosciamo, non riusciamo ad accettarlo, che non abbiamo saputo perdonarci e perdonare, comprendere e trasformare il dolore in amore; e saremmo semplicemente poveri
e terribilmente vuoti.

Davanti a Dio non ci sono personaggi

Il desiderio di essere dei personaggi oggi è abbastanza diffuso: si ambisce ad essere influencer con tanti followers; oppure ad andare in televisione, ad essere protagonisti di qualcuno di quei programmi che permettono anche alle persone comuni e senza doti particolari di farsi vedere, di essere famosi per una sera o per un giorno, di essere riconosciuti il giorno dopo quando si va a fare la spesa. Oppure non fare nulla senza che un fotografo possa immortalare quanto è accaduto e di cui l’io personale diventa protagonista.
Le persone per le quali la fede è ancora un’esperienza importante può darsi che ambiscano ad essere dei personaggi davanti a Dio: persone che si segnalano per il proprio impegno, il proprio zelo, le loro opere buone.
È molto difficile vivere la verità della propria vita: c’è un Narciso che vigila sulla soglia della nostra coscienza, a difesa del nostro onore, del nostro buon nome, della nostra onestà: anche davanti a Dio, che vorremmo costringere a riconoscere i nostri meriti e a darci la “patente” di cristiani per bene, meritevoli dell’elogio di Dio.
Questo è il paradosso: la nostra vita buona ci ha permesso di costruire il personaggio che pretendiamo di esibire anche davanti a Dio.
Questa vita impegnata spesso fa crescere il senso di noi stessi, ci fa sentire protagonisti, mette al centro della scena della nostra vita il nostro Io. Chi vive con questo spirito, non ha bisogno di salvezza: sono le sue scelte, le sue azioni, le sue opere a salvarlo.
La vera fede è quella che si affida a Dio, nel dono e nella dimenticanza di sé.
Dio non chiede di essere convinto dalle nostre opere buone: piuttosto è un Padre buono che conosce la nostra fragilità, anche quando noi stessi non la sappiamo riconoscere, ed è pronto ad accoglierci così come siamo, perché ci vuole bene.
Restituiti alla verità della nostra condizione personale, che fare? Disperarci perché si è infranta la maschera che ci teneva prigionieri del nostro personaggio? Oppure gioire perché attraverso quello scacco abbiamo potuto conoscere che c’è un amore che è più forte del peccato, del limite e della fragilità umana e che ci permette di riconciliarci con la persona che siamo?
Fine di un personaggio; inizio di una vita da persona.
Allora possiamo permetterci anche di essere fragili; non abbiamo nulla da dimostrare a Dio. Possiamo permetterci di continuare a fare il bene, con cuore libero e semplice, che non tiene il conto dei propri meriti.
Così, resi veri da una nuova esperienza di Dio, possiamo anche guardare con benevolenza ai nostri fratelli, senza più la pretesa di essere migliori di loro.
La comunità cristiana ha un grande bisogno di persone che non accampino la pretesa di essere migliori degli altri, e che siano disposte umilmente a mettersi a servizio di ciò di cui vi è bisogno, dove vi è bisogno. Così insegna il Vangelo.

Ottobre: mese missionario

Ottobre, che come ben sappiamo e più volte evidenziato, è dedicato alla Missionarietà della Chiesa.
Proviamo a mettere in evidenza alcune semplici sottolineature o meglio alcuni nodi da sciogliere.
LA SFIDA DELLA QUALITÀ DELLA FEDE
Il primo nodo è costituito dalla difficile custodia e promozione di ciò che è specifico e proprio della fede cristiana: dobbiamo ricollocare Gesù Cristo, la sua Parola e la sua Persona viva, al centro della fede e della vita. E rendere questa centralità, dove già fosse chiaramente vissuta, ancora più capace di produrre nuovi stili di testimonianza al Vangelo. Questo problema, da sempre importante nella vita della Chiesa, si sta facendo oggi più urgente, dato il clima e lo stile di vita che si sta diffondendo causa della cultura secolarizzata.
LA SFIDA DELLA VERA FRATERNITÀ
Il modo di vivere, d’incontrarci e di comunicare, di lavorare, di gioire e di soffrire, tipico della nostra cultura, ci rende sempre più estranei gli uni agli altri. Le relazioni tra le persone, anche quelle profonde e significative (amore, familiarità, amicizia…) diventano sempre più superficiali e fragili.
Se da un lato questo fenomeno, che è sotto gli occhi di tutti, colpisce al cuore il messaggio e la proposta cristiana, dall’altro mi pare che si possa considerarlo come un’occasione eccezionale, che ci viene offerta nell’oggi di Dio, per far vedere quanto sia vero e urgente il messaggio del Vangelo e quanto sia preziosa la presenza nel mondo di autentiche comunità cristiane nelle quali si vive una capacità di fraternità e di amicizia sostenuta dal dono dello Spirito santo di Gesù: “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri”. A questo proposito dobbiamo convincerci del compito urgente che ci è affidato: la trasformazione delle parrocchie da dispensari di servizi religiosi a vere comunità fraterne, nella quali ci si conosce e ci si vuole bene e si collabora all’annuncio e alla testimonianza del Vangelo, che ha nell’amore reciproco sul modello di Gesù il suo centro propulsore e la sua verifica decisiva.

Il Rosario in famiglia

San Giovanni Paolo II nel 2002 ha scritto una lettera sul santo rosario, Rosarium Virginis Mariae.
Giovanni Paolo condivide alcune sue considerazioni personali su come pregare il rosario.
Ma i suoi appunti sull’applicazione del rosario alla famiglia sono particolarmente illuminanti. Dice, ad esempio, che pregare il rosario in famiglia – sebbene non sia la soluzione a ogni problema del mondo moderno – può aiutare a superare alcuni dei principali vizi della vita moderna. La sua preoccupazione più importante è che “non si riesce a stare insieme, e magari i rari momenti dello stare insieme sono assorbiti da altro”. Ma se c’è almeno un tentativo di pregare il rosario insieme, significherà – nella peggiore delle ipotesi – che la famiglia si riunirà per qualcosa di significativo. Recitare il rosario in famiglia, sostiene Giovanni Paolo II, “significa immettere nella vita quotidiana ben altre immagini, quelle del mistero che salva: l’immagine del Redentore, l’immagine della sua Madre Santissima. La famiglia che recita insieme il Rosario riproduce un po’ il clima della casa di Nazareth: si pone Gesù al centro, si condividono con lui gioie e dolori, si mettono nelle sue mani bisogni e progetti, si attingono da lui la speranza e la forza”. Molte famiglie trascorrono centinaia di ore davanti a immagini spesso intrise di violenza, morte e vizi di ogni tipo. Ma il rosario porta alla mente immagini diverse. Porta Cristo al centro della famiglia.