S. Messa per i lavoratori

Fabbro, falegname, carpentiere. San Giuseppe era tutto questo – come insegnano i Vangeli – oltre a essere lo sposo di Maria e il padre terreno di Gesù. Con la sua vita di onesto lavoratore, San Giuseppe nobilita il lavoro manuale con il quale mantiene la sua Santa Famiglia e partecipa al progetto della salvezza.
Il lavoro: partecipazione al disegno divino
Come quei padri che insegnano il proprio lavoro ai figli, così fa anche Giuseppe con Gesù. Egli stesso, più volte, viene chiamato nei Vangeli “il figlio del carpentiere” oppure “del legnaiuolo”. Più di tutti, quindi, San Giuseppe rappresenta la dignità del lavoro umano che è dovere e perfezionamento dell’uomo che così esercita il suo dominio sul Creato, prolunga l’opera del Creatore, offre il suo servizio alla comunità e contribuisce al piano della salvezza. Giuseppe ama il suo lavoro. Non si lamenta mai della fatica, ma da uomo di fede la eleva a esercizio di virtù; sa essere sempre contento perché non ambisce alla ricchezza e non invidia i ricchi: per lui il lavoro non è un mezzo per soddisfare la propria cupidigia, ma solo strumento di sostentamento per la sua famiglia.
Poi, come viene prescritto agli ebrei, il sabato osserva il riposo settimanale e prende parte alle celebrazioni. Non deve stupire questa concezione nobile del lavoro più umile, quello manuale: già nell’Antico Testamento, infatti, Dio viene simboleggiato di volta in volta come vignaiolo, seminatore, pastore.
La festa di San Giuseppe Artigiano
Fu istituita ufficialmente da Pio XII il Primo Maggio del 1955 per aiutare i lavoratori a non perdere il senso cristiano del lavoro così espresso, ma già Pio IX aveva in qualche modo riconosciuto l’importanza di San Giuseppe come lavoratore quando proclamò il Santo patrono universale della Chiesa. Il principio del lavoro come mezzo per la salvezza eterna sarà ripreso anche da Giovanni Paolo II nella sua Enciclica Laborem Exercens, in cui lo chiama “il Vangelo del lavoro”.

Solennità S. Giuseppe ci insegna la via della Giustizia

Il Vangelo ci presenta la figura di Giuseppe come «un uomo giusto». Egli si è fidato di ciò che il Signore gli ha rivelato e ha accolto la sua sposa Maria. La giustizia è una virtù importante, fondamentale, per la vita umana ed è la costante e ferma volontà di dare a ciascuno il suo. È una virtù della volontà, corrisponde al voler bene – volere il bene dell’altro, il bene della società – e questo porta ad un comportamento retto e onesto. Molte volte sentiamo nei casi di cronaca che i parenti delle vittime vogliono giustizia, ma sembra che la giustizia debbano farla gli altri; dobbiamo imparare invece che ognuno di noi deve fare giustizia – non aspettare che altri compiano delle opere giuste – io devo essere giusto in tutto ciò che faccio.
La giustizia è volere il bene e dare a ciascuno quello che gli è dovuto. Pertanto ci accorgiamo che molti nostri atteggiamenti, anche nei piccoli, sono invece segnati dall’ingiustizia: imbrogliare durante un gioco, ingannare con una menzogna è un danno che facciamo all’altro, è un’azione ingiusta. Sono piccole cose, ma sono sbagliate. Dobbiamo imparare nelle piccole cose di tutti i giorni a essere giusti e precisi.
Il mondo dell’economia, dei soldi, è segnato da una quantità immensa di ingiustizie: le truffe, gli imbrogli,
i furti, le rapine, le omissioni di offerta; per fare soldi si commettono facilmente ingiustizie, si compiono azioni sbagliate, perché c’è un ideale superiore: quello del denaro. Vogliamo imparare a essere persone oneste, giuste nei conti, anche nelle piccole cose, anche nelle relazioni con gli altri – i figli coi genitori, fra marito e moglie, nei conti della spesa, nei piccoli acquisti. La giustizia entra in tutte le nostre attività.
La giustizia può essere violata anche con le parole: la maldicenza, il disprezzo per qualche persona, il pettegolezzo; la calunnia è una violazione della giustizia, perché non viene dato l’onore a quella persona, ma le viene tolto … è perciò un danno. Dire bugie o cattiverie contro le persone è una azione ingiusta.
Allora dobbiamo imparare sempre di più a essere corretti nei pensieri (non pensiamo male del prossimo!), nelle parole (non diciamo cose cattive degli altri!), nelle azioni (non inganniamo!), proprio perché vogliamo essere coerenti e trasparenti, dando a ciascuno ciò che gli è dovuto. Ma non dimentichiamo che anche a Dio dobbiamo qualcosa – anzi – dobbiamo tutto! La virtù della giustizia nei confronti di Dio si chiama religione: l’atteggiamento religioso che considera Dio e gli dà attenzione, gli offre gratitudine, riconoscenza è atteggiamento giusto, perché Dio se lo merita proprio. Non prendere in considerazione Dio, non dargli tempo, non dargli affetto, è al contrario ingiustizia, è come ingannare la nostra natura. Giuseppe – uomo giusto – era tale non solo perché faceva i conti in regola, ma perché, ascoltando il Signore, gli ha obbedito e si è fidato. È un uomo giusto perché è un uomo di fede, un uomo obbediente. Ecco un altro settore importante della giustizia: l’obbedienza … dovuta ai genitori, a coloro che ci guidano, che di educano, che ci governano nella vita. L’obbedienza è un dovere di giustizia ed è un atteggiamento che, già da bambini, rischia di essere proprio la fonte di peccato. Il peccato più comune che confessano i bambini è infatti di essere disobbedienti, di rispondere male ai genitori, ma è l’atteggiamento comune che manteniamo anche da grandi! Non nel caso dei genitori, ma l’obbedienza ci dà fastidio. Anche l’obbedienza a Dio … e se potessimo, risponderemmo male anche a Lui … e qualche volta lo facciamo. La giustizia come virtù umana ci insegna a volere bene a Dio, a riconoscerlo come creatore e salvatore, e a obbedirgli in tutto, non quando ci fa comodo, in tutto! È l’obbedienza della fede che ci salva. San Giuseppe ascolta quella parola divina che lo riguarda in prima persona e gli chiede un sacrifico, un coraggio enorme: egli obbedisce.
Perciò è un grande maestro per noi. Chiediamo al Signore che ci aiuti in questo tempo di Quaresima a diventare più umani. E quando le persone sono più umane, più giuste, più moderate, si vive molto meglio. Il mondo nuovo lo creiamo noi! Gesù è venuto per creare un mondo nuovo attraverso di noi; ognuno di noi si ripeta: “Voglio giustizia” — cioè voglio fare giustizia io per primo: se gli altri non la fanno, pazienza, io voglio essere giusto!

Messaggio dei Vescovi per la Festa dei Lavoratori 1° maggio 2024

Il lavoro per la partecipazione e la democrazia

Lavorare è fare “con” e “per”

«Il Padre mio opera sempre e anch’io opero». Queste parole di Cristo aiutano a vedere che con il lavoro si esprime «una linea particolare della somiglianza dell’uomo con Dio, Creatore e Padre». Ognuno partecipa con il proprio lavoro alla grande opera divina del prendersi cura dell’umanità e del Creato. Lavorare quindi non è solo un “fare qualcosa”, ma è sempre agire “con” e “per” gli altri, quasi nutriti da una radice di gratuità che libera il lavoro dall’alienazione ed edifica comunità: «È alienata la società che, nelle sue forme di organizzazione sociale, di produzione e di consumo, rende più difficile la realizzazione di questo dono ed il costituirsi di questa solidarietà interumana». In questa stessa prospettiva, l’articolo 1 della Costituzione italiana assume una luce che merita di essere evidenziata: la “cosa pubblica” è frutto del lavoro di uomini e di donne che hanno contribuito e continuano ogni giorno a costruire un Paese democratico.
Senza l’esercizio di questo diritto, senza che sia assicurata la possibilità che tutti possano esercitarlo, non si può realizzare il sogno della democrazia.

Il “noi” del bene comune: la priorità del lavoro

Come ricorda papa Francesco in Fratelli tutti, per una migliore politica «il grande tema è il lavoro. Ciò che è veramente popolare – perché promuove il bene del popolo – è assicurare a tutti la possibilità di far germogliare i semi che Dio ha posto in ciascuno, le sue capacità, la sua iniziativa, le sue forze». Le politiche del lavoro da assumere a ogni livello della pubblica amministrazione devono tener presente che «non esiste peggiore povertà di quella che priva del lavoro». Occorre aprirsi a politiche sociali concepite non solo a vantaggio dei poveri, ma progettate insieme a loro, con dei “pensatori” che permettano alla democrazia di non atrofizzarsi ma di includere davvero tutti. Investire in progettualità, in formazione e innovazione, aprendosi anche alle tecnologie che la transizione ecologica sta prospettando, significa creare condizioni di equità sociale. È necessario inoltre guardare agli scenari di cambiamento che l’intelligenza artificiale sta aprendo nel mondo del lavoro, in modo da guidare responsabilmente questa trasformazione ineludibile.

Prenderci cura del lavoro è atto di carità politica e di democrazia

“A ciascuno il suo” è questione elementare di giustizia: a chiunque lavora spetta il riconoscimento della sua altissima dignità. Senza tale riconoscimento, non c’è democrazia economica sostanziale. Per questo, è
determinante assumere responsabilmente il “sogno” della partecipazione, per la crescita democratica del Paese. Le istituzioni devono assicurare condizioni di lavoro dignitoso per tutti, affinché sia riconosciuta la dignità di ogni persona, si permetta alle famiglie di formarsi e di vivere serenamente, si creino le condizioni perché tutti i territori nazionali godano delle medesime possibilità di sviluppo, soprattutto le aree dove persistono elevati tassi di disoccupazione e di emigrazione. Tra le condizioni di lavoro quelle che prevengono situazioni di insicurezza si rivelano ancora le più urgenti da attenzionare, dato l’elevato numero di incidenti che non accenna a diminuire. Inoltre, quando la persona perde il suo lavoro o ha bisogno di riqualificare le sue competenze, occorre attivare tutte le risorse affinché sia scongiurato ogni rischio di esclusione sociale, soprattutto di chi appartiene ai nuclei familiari economicamente più fragili, perché non dipenda esclusivamente dai pur necessari sussidi statali. Un lavoro dignitoso esige anche un giusto salario e un adeguato sistema previdenziale, che sono i concreti segnali di giustizia di tutto il sistema socioeconomico. Bisogna colmare i divari economici fra le generazioni e i generi, senza dimenticare le gravi questioni del precariato e dello sfruttamento dei lavoratori immigrati. Fino a quando non saranno riconosciuti i diritti di tutti i lavoratori, non si potrà parlare di una democrazia compiuta nel nostro Paese. A questo compito di giustizia sono chiamati anche gli imprenditori, che hanno la specifica responsabilità di generare occupazione e di assicurare contratti equi e condizioni di impiego sicuro e dignitoso.
I lavoratori, consapevoli dei propri doveri, si sentano corresponsabili del buon andamento dell’attività produttiva e della crescita del Paese, partecipando con tutti gli strumenti propri della democrazia ad assicurare, non solo per sé ma anche per la collettività e per le future generazioni, migliori condizioni di vita.
La dimensione partecipativa è garantita anche dalle associazioni dei lavoratori, dai movimenti di solidarietà degli uomini del lavoro e con gli uomini del lavoro che, perseguendo il fine della salvaguardia dei diritti di tutti, devono contribuire all’inclusione di ciascuno, a partire dai più fragili, soprattutto nelle aziende.

Solennità di San Giuseppe

La figura di Giuseppe è una figura capitale per comprendere la storia della salvezza.
Lo è fondamentalmente per due motivi. Il primo consiste nel fatto che la sua presenza ci ricorda il realismo con cui Dio agisce per salvarci. Infatti si fa bisognoso dell’aiuto pratico, concreto, operoso, efficace di quest’uomo come il vero miracolo che rende possibile la venuta di suo Figlio nel mondo.
Il secondo motivo è la profonda libertà con cui Giuseppe mette da parte i suoi progetti e fa spazio alla
volontà di un Dio che non comprende fino in fondo ma che avverte come colui a cui consegnare la propria storia.
È la stessa esperienza che facciamo noi quando ci ritroviamo con delle vite che sembrano mettere in crisi tutte le nostre aspettative. Abbiamo la sensazione che la volontà di Dio non solo non coincida con la nostra ma che molto spesso sia esattamente il contrario della nostra. Ma quando si è disposti ad assecondare ciò che il Signore ci mette davanti, solo allora ci si accorge che in quello che è misterioso e apparentemente non scelto, si nasconde il compimento più vero e più profondo di ciò che avevamo desiderato.
Giuseppe rappresenta in massimo grado l’esempio più alto di chi ha vissuto una vita con questa prospettiva e con l’infinita fiducia nella misteriosa volontà di Dio

Il 19 marzo cade in giorno di sabato e in tempo di quaresima. La messa vespertina sarà della III domenica di Quaresima. Per questo, per ricordare solennemente la figura di san Giuseppe, sarà celebrata una Messa al mattino alle ore 9.

Chiusura anno dedicato a San Giuseppe

Il Papa aveva indetto un Anno speciale di San Giuseppe, nel giorno in cui ricorrevano i 150 anni del Decreto Quemadmodum Deus, con il quale il Beato Pio IX dichiarò S. Giuseppe Patrono della Chiesa Cattolica. “Al fine di perpetuare l’affidamento di tutta la Chiesa al potentissimo patrocinio del Custode di Gesù, Papa Francesco – si legge nel decreto – ha stabilito che, dalla data odierna (8 dicembre 2020), anniversario del Decreto di proclamazione nonché giorno sacro alla Beata Vergine Immacolata e Sposa del castissimo Giuseppe, fino all’8 dicembre 2021, sia celebrato uno speciale Anno di San Giuseppe”.

Con cuore di Padre

Breve riflessione nell’anno di San Giuseppe

«Alzati, prendi con te il bambino e sua madre» è il comando di Dio a san Giuseppe, che ritma di slancio il suo cammino, nella partenza della Sacra Famiglia per l’Egitto e nel suo ritorno in Israele.
San Giuseppe ci appare padre amato, padre nella tenerezza, nell’obbedienza e nell’accoglienza; padre dal coraggio creativo, lavoratore, padre nell’ombra.
Lo sfondo della pandemia fa sorgere la gratitudine verso tante persone che al pari dello sposo di Maria, apparentemente nascoste, «hanno un protagonismo senza pari nella storia della salvezza». 
Ai cuori appesantiti dalle fragilità delle persone e delle nostre relazioni, che la presente situazione sembra ingigantire, possiamo trovare l’aiuto del Padre della tenerezza. Non un sentimento ma una dimensione sapienziale. «La storia della salvezza si compie “nella speranza contro ogni speranza” (Rm 4,18).
Giuseppe avrà sentito certamente riecheggiare nella sinagoga, durante la preghiera dei Salmi, e come ogni padre avrà tramandato a suo figlio, che il Dio d’Israele è un Dio di tenerezza, che è buono verso tutti e «la sua tenerezza si espande su tutte le creature» (Sal 145,9). La parola tenerezza nell’originale ebraico indica il campo semantico della generazione e rigenerazione materna. Non sentimento di compassione ma capacità di far rinascere. Alla tenerezza fa eco l’accoglienza, come richiede il realismo cristiano. «Tante volte, nella nostra vita accadono avvenimenti di cui non comprendiamo il significato. La nostra prima reazione è spesso di delusione e ribellione. Giuseppe lascia da parte i suoi ragionamenti per fare spazio a ciò che accade e, per quanto possa apparire ai suoi occhi misterioso, egli lo accoglie, se ne assume la responsabilità e si riconcilia con la propria storia». A volte la vita appare chiusa, le strade sbarrate. Ma rimbalza nelle nostre case una parola chiave: perdono. Nelle nostre famiglie «non c’è nulla di più solido, di più profondo, di più sicuro, di più consistente e di più saggio».

Con cuore di Padre

Breve riflessione nell’anno di San Giuseppe

La grandezza di san Giuseppe consiste nel fatto che egli fu lo sposo di Maria e il padre di Gesù. In quanto tale, si pose al servizio dell’intero disegno salvifico. Ha fatto della sua vita un servizio al mistero dell’incarnazione e alla missione redentrice. Ha convertito la sua umana vocazione all’amore domestico nell’oblazione di sé, del suo cuore e di ogni capacità, nell’amore posto a servizio del Messia germinato nella sua casa. Per questo suo ruolo nella storia della salvezza, san Giuseppe è un padre che è stato sempre amato dal popolo cristiano, come dimostra il fatto che in tutto il mondo gli sono state dedicate numerose chiese; che molti Istituti religiosi, Confraternite e gruppi ecclesiali sono ispirati alla sua spiritualità e ne portano il nome. Santa Teresa d’Avila, che lo adottò come avvocato e intercessore, raccomandandosi molto a lui e ricevendo tutte le grazie che gli chiedeva; incoraggiata dalla propria esperienza, la Santa persuadeva gli altri ad essere devoti.

Con cuore di Padre

Breve riflessione nell’anno di San Giuseppe

Gesù ha vissuto trent’anni della sua vita nel silenzio e nascondimento della quotidianità di Nazaret. È una cosa che sovente dimentichiamo: la maggior parte della vita di Gesù è accaduta nella ferialità. Noi siamo spesso spaventati dalle cose di ogni giorno. Ci spaventano i giorni che si ripetono e le cose che si ritualizzano. Andiamo sempre alla ricerca di una novità, di una trasgressione. La maggior parte dei nostri peccati nasce come forma di evasione della nostra routine. Eppure, il campo della quotidianità deve nascondere un tesoro che dobbiamo imparare a trovare. Ce lo dice il Vangelo, quando ci fa intendere che il prima della vita di Gesù è la sua grande rincorsa al dopo, cioè alla sua vita pubblica. In fondo tutto quello che desideriamo nella vita lo possiamo avere solo se siamo preparati ad accoglierlo. È la fedeltà al poco di ogni giorno che ci prepara al molto che ci riserva la vita, e questo non solo nel bene ma anche nel male. Chi non è capace di bene nelle piccole cose delle sue giornate, quando gli accadrà l’occasione della sua vita rischierà di sprecarla, perché non è allenato alla fedeltà del bene.
Allo stesso modo che non si è allenato ad accogliere e affrontare le piccole mortificazioni di ogni giorno, si troverà completamente impreparato quando dovrà scontrarsi con qualche croce più grande.
Come un atleta sa che il tempo dell’allenamento è propedeutico alla gara, così per ognuno di noi la quotidianità è propedeutica a ciò che la vita ci riserverà.

Con cuore di Padre

Breve riflessione nell’anno di San Giuseppe

“Il padre e la madre di Gesù si stupivano delle cose che si dicevano di lui”. L’evangelista Luca annota lo stupore di Giuseppe e di Maria. Lo stupore è possibile solo a patto che si rinunci ai propri pregiudizi. Quando si è convinti di aver capito tutto, e di sapere tutto, allora il cuore non è più nella posizione dello stupore. Quando invece ci si ricorda che l’altro, per quanto lo amiamo e lo conosciamo, rimane comunque un mistero ai nostri occhi, allora si è disposti a lasciarsi stupire, perché il tesoro che nell’altro è nascosto è visibile agli occhi di chi ama autenticamente. Maria e Giuseppe vivono con Gesù la loro vita e la loro quotidianità, ma ogni tanto accade qualcosa che li stupisce, che ricorda loro che Gesù è sempre molto più di quello che loro credono o capiscono. Troppo spesso le nostre relazioni non funzionano più perché non siamo più disposti allo stupore dell’altro. Viviamo con il pregiudizio presuntuoso di sapere ormai chi è che ci sta accanto. Pensiamo che l’altro sia la somma dei suoi pregi e dei suoi difetti. Ci illudiamo che conoscendo il suo carattere conosciamo davvero lui o lei, ma la verità è che quando pensiamo di racchiudere chi amiamo in una definizione ben precisa, mozziamo in lui o lei la possibilità dell’imprevisto, del mistero che li abita. Essere familiari con qualcuno non deve mai significare di smettere di attenderci una novità da lui. Giuseppe è capace di questo stupore perché ha vissuto accanto a due misteriose bellezze: Gesù e Maria.

Con cuore di Padre

Breve riflessione nell’anno di San Giuseppe

Ogni vero amore è tale solo se libera e lascia liberi.
L’amore che possiede non è amore, è egoismo travestito da amore.
La teologia chiama “amore casto” l’amore capace di essere libero dal possesso. La castità quindi è la capacità di amare liberi dal possesso.
In questo senso, Giuseppe è castissimo. Nessuno più di lui ha saputo amare senza usare la logica predatoria di voler tenere per sé ciò che ha amato. Lo si capisce da almeno due cose: accogliere la gravidanza di Maria, lasciandosi quindi deludere nelle sue aspettative, e l’episodio di Gesù dodicenne che rimane a Gerusalemme senza che Maria e Giuseppe se ne accorgano. Quella “perdita” è prova del fatto che Giuseppe sa amare Gesù fino al punto di lasciarlo libero di seguire una strada non tracciata da loro.
Quado lo ritrovano è Maria a parlare: “Tuo padre e io angosciati ti cercavamo”.
Giuseppe non interviene e incassa la risposta di Gesù: “Non sapevate che dovevo occuparmi delle cose del Padre mio?”. Ancora silenzio da parte di Giuseppe.
È il silenzio di chi accetta di soffrire nell’amore.
Infatti, l’amore casto è l’amore che accetta che l’altro sia diverso dalle nostre aspettative. È amore che accetta che l’altro sbagli. È amore che sa perdonare. È amore che sa farsi da parte perché l’altro divenga pienamente sé stesso. È amore che sa tacere. È amore che viene a cercarti.
È amore che ti riprende con sé.
È amore che cammina accanto a te.