“Ritenni di non sapere altro se non Gesù Crocifisso”
Si comprende la scelta di Paolo apostoli a partire dalla Prima Lettera ai Corinzi. Un testo sul quale è utile soffermarsi in una stagione in cui troppe volte ci si illude di poter rendere più attraente il Vangelo grazie all’acquisizione di nuove tecniche di comunicazione o alla padronanza di nuove tecnologie.
In questa pagina, Paolo ritorna con la memoria alle origini della sua permanenza in quella città, nella quale era giunto dopo aver sperimentato il fallimento del suo talento oratorio davanti alla folla riunita all’Areopago di Atene (cfr. Atti Apostoli capitolo 17). Di fatto, a Corinto lo aveva inviato Gesù, esortandolo a non aver paura: “Continua a parlare e non tacere, perché io sono con te” (cfr. At. Ap. 18,9-11). Ora, scrivendo alla comunità, l’apostolo rievoca questi inizi umili:
“Anch’io, fratelli, quando venni tra voi, non mi presentai ad annunciarvi il mistero di Dio con l’eccellenza della parola o della sapienza. Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e Cristo crocifisso. Mi presentai a voi nella debolezza e con molto timore e trepidazione. La mia parola e la mia predicazione non si basarono su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza, perché la vostra fede non fosse fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio”. (1 Cor. 2,1-5)
Nei versetti precedenti, Paolo aveva già introdotto il tema della sapienza di Dio e in quella luce aveva rievocato la propria esperienza, al centro della quale campeggia la parola eloquente della Croce, che è portatrice della potenza divina (cfr. 1 Cor 1,18). Guardando ad essa, l’apostolo ha imparato a riconoscersi avvolto e salvato dal mistero di quella morte, fino ad esclamare: “Cristo mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal. 2,20). Di conseguenza, presentandosi ai Corinzi, non può che adeguarsi allo stile di Dio, quello che anche lui ha sperimentato. Non può cioè che proporsi con l’umiltà di chi è consapevole della sproporzione fra la vocazione ricevuta e la propria persona, fra l’annuncio di cui è portatore e la debolezza della propria parola.
Mi sono voluto soffermare sulla Parola della Croce, perché è il cuore del Vangelo e lì occorre tornare in un tempo che non è per la distrazione, ma al contrario per rimanere vigili e risvegliare in noi la capacità di guardare all’essenziale. E guardare all’essenziale è necessario per mantenere viva la memoria di una salvezza che ci ha raggiunto nel mistero della morte e risurrezione del Signore Gesù. Sta qui la verità del vangelo, che dovrebbe essere comunicata anche oggi, senza cedere alla tentazione di addomesticarla per timore che risulti poco attraente in un mondo abituato a coltivare l’illusione dell’autosufficienza e dell’autorealizzazione. Di fronte al mistero di questo amore, che gratuitamente ci precede e ci interpella, riaffiorano però dal cuore alcune domande: Come si può diventare oggi contemporanei di Gesù? Dove si rende disponibile per noi l’esperienza di un incontro con Lui? E a quali condizioni?
Ci è stata affidata questa operazione: mantenere viva la memoria di Gesù e lasciarci continuamente ricreare dalla sua Pasqua. Tale memoria è alimentata dalla mediazione del Vangelo, che resta condizione imprescindibile non solo per accedere a Lui, ma anche per riconoscere la sua prossimità, che ci accompagna e non viene meno neppure nei tempi di crisi. Per questa ragione la predicazione non può sopportare i linguaggi fittizi di una comunicazione diffusa ma incapace di dire cose vere, e nemmeno può patteggiare con il linguaggio della croce, perché ne va della qualità stessa della nostra vita.