Il Covid-19 ha precipitato il mondo intero in uno stato di desolazione. Lo stiamo vivendo già da tanto tempo; è un’esperienza che non si è conclusa e potrà durare ancora a lungo. Ma quale interpretazione possiamo darne? Certo, siamo chiamati ad affrontarlo con coraggio. La ricerca di un vaccino e di una spiegazione scientifica accurata su cosa ha scatenato questa catastrofe ne sono la prova. Ma siamo anche chiamati a una consapevolezza più profonda? Se così fosse, in che modo questa presa di distanza ci impedirà di cadere preda dell’inerzia della noncuranza, o peggio, della complicità con la rassegnazione? È possibile fare “un passo indietro” ponderato, che non significhi inazione, un pensiero che possa trasformarsi in un ringraziamento per la vita data, come se fosse un passaggio verso una rinascita della vita?
Con il Covid-19, ci siamo trovati collegati in modo diverso, condividendo un’esperienza comune di contingenza: non risparmiando nessuno, la pandemia ci ha resi tutti parimenti vulnerabili, tutti ugualmente esposti.Tale consapevolezza è stata raggiunta a un caro prezzo. Quali lezioni abbiamo appreso? Inoltre, quale conversione del pensiero e dell’agire siamo preparati a vivere nella nostra responsabilità comune per la famiglia umana?
La dura realtà delle lezioni apprese
La pandemia ci ha regalato lo spettacolo delle strade vuote e di città fantasma, di una prossimità umana ferita, del distanziamento fisico. Ci ha privato dell’esuberanza degli abbracci, della gentilezza delle strette di mano, dell’affetto dei baci e ha trasformato le relazioni in interazioni timorose tra sconosciuti, lo scambio neutro di individualità senza volto, avvolte nell’anonimità dei dispositivi di protezione. Le limitazioni ai contatti sociali sono spaventose; possono portare a situazioni di isolamento, disperazione, rabbia e abusi. Per gli anziani agli ultimi stadi di vita, la sofferenza è stata ancora più accentuata, in quanto il disagio fisico si è accompagnato ad una qualità della vita deteriorata e alla mancanza delle visite da parte della famiglia e degli amici.
Vita tolta, vita ricevuta: la lezione della fragilità
Le metafore principali che oggi invadono il nostro linguaggio comune sottolineano l’ostilità e un senso pervasivo di minaccia: gli incoraggiamenti ripetuti a “combattere” il virus, i comunicati stampa che risuonano come “bollettini di guerra”, gli aggiornamenti quotidiani sul numero di contagiati, che presto diventano “caduti”. Nella sofferenza e nella morte di così tante persone, abbiamo imparato la lezione della fragilità. In numerosi paesi, gli ospedali fanno ancora fatica a soddisfare le innumerevoli richieste, e sono costretti alla pena del razionamento e al logoramento del personale sanitario. Una miseria immensa, indescrivibile e la lotta per il bisogno primario di sopravvivenza hanno messo in evidenza la condizione dei carcerati, di coloro che vivono in condizioni di povertà estrema ai margini della società, soprattutto nei paesi in via di sviluppo e degli abbandonati destinati all’oblio nell’inferno dei campi profughi.
Abbiamo toccato con mano il volto più tragico della morte: alcuni hanno conosciuto la solitudine della separazione, sia fisica che spirituale, hanno lasciato le proprie famiglie impotenti, impossibilitate ad accomiatarsi dai loro cari, senza neanche la possibilità della più elementare pietà di una sepoltura adeguata. Abbiamo visto vite finire senza alcuna distinzione di età, status sociale o condizioni di salute. “Fragili”. Ecco cosa siamo tutti: radicalmente segnati dall’esperienza della finitudine che è al cuore della nostra esistenza; non si trova lì per caso, non ci sfiora con il tocco gentile di una presenza transitoria, non ci lascia vivere indisturbati nella convinzione che tutto andrà secondo i nostri piani.
Affioriamo da una notte dalle origini misteriose: chiamati a essere oltre ogni scelta, presto arriviamo alla presunzione e alle lamentele, rivendicando come nostro quello che ci è stato solamente concesso. Troppo tardi abbiamo imparato ad accettare l’oscurità da cui veniamo e a cui, infine, torneremo. Secondo alcuni questa storia è assurda, in quanto tutto si riduce al nulla. Ma come potrebbe questo nulla essere la parola finale? E se così fosse, perché combattere? Perché ci incoraggiamo reciprocamente a sperare in giorni migliori, quando tutto ciò che stiamo vivendo in questa pandemia sarà finito?
La vita va e viene, dice il custode della prudenza cinica. Ma questo suo crescere e decrescere, ora reso più evidente dalla fragilità della nostra condizione umana, potrebbe aprirci a una diversa saggezza, una diversa consapevolezza: la dolorosa prova della fragilità della vita può anche rinnovare la nostra consapevolezza che è un dono. Tornando alla vita, dopo aver assaporato il frutto ambivalente della sua contingenza, non saremo più saggi? Non saremo più grati, meno arroganti?