I missionari martiri sono il faro che spinge le comunità cristiane a rivolgere lo sguardo verso gli insegnamenti di Gesù di Nazareth. Nella sua vita terrena, infatti, il Figlio di Dio ha incarnato un’esistenza priva di mezze misure: nel suo messaggio non troviamo posizioni intermedie tra l’indifferenza e la difesa dei poveri ma una scelta netta verso questi ultimi. 2000 anni fa come oggi la sequela del Maestro rimane un fatto di coerenza. Abbracciare la fede in Dio, lasciarsi guidare da essa, significa fare della fraternità il senso stesso della vita. Sembra difficile di questi tempi essere convinti che la nostra salvezza possa trovarsi proprio in coloro che incontriamo lungo la strada, davanti la porta di casa o nel luogo più sperduto della Terra, eppure non c’è esperienza umana più significativa che lasciarsi guarire da un incontro. Quando incrociamo uno sguardo, quando entriamo in contatto con gli altri, una dimensione naturale sembra emergere dal nostro inconscio: la prova tangibile che siamo fatti per essere fratelli. In quell’istante scorgiamo un confine posto poco al di là della nostra pelle: solcarlo è il più grande atto di fede che si possa compiere. La testimonianza di coloro che hanno consacrato la propria vita al Vangelo fino ad essere disposti a perderla pur di non tradirlo, giunge fino a noi e ci parla di una fedeltà a Dio sempre corrisposta, ad un amore capace di sconfiggere le tenebre, di attraversare la morte e far risuonare i loro nomi e la loro storia nel nostro tempo. Ciò che i missionari martiri ci lasciano in eredità è l’invito a riscoprire la bellezza che abita questo mondo. Ogni creatura è un immenso tempio di Dio sulla Terra, capace di accogliere, ascoltare e sanare le ferite. Entrarvi significa coglierne la ricchezza e farsene custodi.
