La casa – mi verrebbe da dire – è un luogo di privilegio per il Vangelo, perché il clima della casa sveste inesorabilmente la fede da ogni forma di solennità aulica o di vaga astrattezza, da ogni tono predicatorio.
La casa ridona alla fede il colore della vita quotidiana. Non ci sono pulpiti né amboni, c’è la tavola, il letto, la lampada e le parole sono sposate alle cose di ogni giorno, alla concretezza del vivere. La casa ha la possibilità
di restituire il colore della vita alla fede. Non sarà anche per questo che Gesù i suoi discepoli li manda nelle case. Case e strade sono luoghi dove non si usa il verbo “proclamare”, dove invece prende forma e cuore il verbo “raccontare”, raccontarsi, il verbo della relazione. Se la comunicazione della fede prende la forma del parlarsi dentro il calore di una relazione, una cosa dovrebbe preoccuparci: il venire meno, nelle case, del tempo della relazione, terreno fertile al cui caldo cresce anche il grano della fede.
Tra i sogni di tanti di noi rimane una tavola intorno alla quale ci si possa raccontare.
Una volta accadeva, oggi è diventato quasi un miraggio. Sempre più a fatica coincidono i tempi dell’uno e dell’altro e quando, per grazia, accade, è duro resistere all’invasione, alla fascinazione prepotente dei mezzi di comunicazione.
Il Vangelo deve radicarsi dentro il racconto della vita, nel suono di parole che conoscono sussulti.
È dalla vita che nascono domande, quella che non hanno età. Chi sono io? Chi è l’altro per me?
Che cosa ci facciamo su questa terra? Che cosa cerchiamo? Che cosa significa amare?
Il Vangelo ha a che fare con queste domande. Comunicare la fede conosce l’arte di suscitare domande. Le definizioni ci fanno immobili, come i monumenti. Le domande mettono in cammino.
