“Tutti in giostra ma con il cuore vuoto”
Accidia, e che sarà mai? Tra tutti i vizi, è l’unico racchiuso in una parola che da tempo non appartiene al linguaggio comune. Che superbo, un attacco d’ira, sei goloso, ti invidio … queste espressioni ci sono chiare, e ci capita di usarle; ma nessun professore dirà a uno studente: ultimamente ti vedo accidioso. Accidia, ovvero: negligenza, indifferenza, trascuratezza, instabilità, pessimismo, sconforto, noia.
È la figura del fannullone, così ben designata dallo scrittore umorista Jerome K. Jerome: “Il lavoro mi piace, mi affascina. Potrei starmene seduto per ore a guardarlo”.
Il sospetto è che l’accidia, nel ventunesimo secolo, sia qualcosa di diffuso.
È la condizione di chi non padroneggia la propria vita, non sa darle una direzione, ha perso lo scopo. Di chi detesta tutto ciò che non ha, salvo detestarlo non appena se ne impossessa. Di chi non sa più perché sta vivendo. Eppure vive. Tutti viviamo e andiamo sempre più veloci, frenetici, con l’agenda strapiena.
Come possiamo dunque essere accidiosi, se non stiamo mai fermi e produciamo e ci arricchiamo senza sosta? Dovremmo essere l’esatto contrario dell’accidioso. La vita degli accidiosi contemporanei è simile a una giostra: si muove frenetica, ma non va da nessuna parte. Gli accidiosi sono indaffaratissimi ma improduttivi, perché privi di ideali e di passioni. Forse ci siamo. L’accidia è l’incapacità di sentir vibrare il proprio cuore, di appassionarsi davvero alla famiglia e alla professione, di perseguire un grande progetto di vita.
Se ciò è vero, l’accidia è forse il più diffuso vizio sociale. “Questo vizio – scrive un blogger nel suo sito – è il male del nostro tempo. Viviamo senza passione, senza impeto, sforzandoci come matti di mostrare ogni giorno nuovi interessi, tanti impegni, grande dinamismo … ma sempre più attenti a non venir feriti, delusi o abbandonati. Riempiamo, con mille sciocchezze, un contenitore che per molti si è svuotato lentamente. Tanto lentamente da non farcene accorgere: il cuore”.
L’accidia è il vizio capitale dimenticato, è come calata la cortina del silenzio.
“Accidia: la tristezza del bene spirituale, soprattutto del bene divino” (s. Tommaso).
“Accidia: una tristezza affaticante” (s. Giovanni Damasceno).
Chi intraprende un cammino di vita spirituale sa per esperienza che la noia, l’aridità, la stanchezza, il rifiuto delle cose divine sono sempre in agguato, mentre rimane vivo il richiamo delle cose terrene e materiali. Questa sensazione non è peccato finché resta allo stadio di sensazione: denota solo l’imperfezione del cristiano e la fragilità della sua conversione. Diventa peccato quando l’uomo si lascia dominare da questo stato d’animo e abbandona il cammino verso Dio, preferendo prima l’inerzia e poi ricercando beni alternativi. L’accidia è il rifiuto dell’amore di Dio e della gioia che l’anima assapora nel suo rapporto con Dio.
Il bene divino che dovrebbe dare gioia all’anima, viene invece vissuto come un peso e viene rifiutato. E con il bene divino vengono rifiutate tutte le realtà che fanno parte del mondo di Dio e che sono gli strumenti per accedere a questo mondo: la Beatitudine, l’amicizia con Dio, i Sacramenti, la preghiera, la vita di Grazia, le buone opere, la Legge di Dio. Tutto diventa faticoso, noioso, insopportabile. San Tommaso nella risposta a chi obiettava che l’accidia non è un peccato perché non si oppone ad un precetto in particolare, dice che l’accidia si oppone al precetto della santificazione del sabato. È il riposo dello spirito in Dio, che viene invece rifiutato da chi non trova riposo, ma tristezza nel bene divino. Il richiamo al sabato apre un nuovo capitolo sull’accidia. Infatti la cultura attuale propone con sempre maggiore insistenza il tema del “tempo-libero”. Può diventare il tempo del vuoto, il tempo del non-fare, per reazione ad un tempo di stress e di fatica prodotta dal lavoro.
La domenica non come tempo dedicato a Dio e alle cose spirituali.