Rimanete nel mio amore: produrrete molto frutto

(cfr. Gv 15,5-9)

Gesù disse ai suoi discepoli: “Rimanete nel mio amore”. Egli rimane nell’amore del Padre e non desidera altro che condividere questo amore con noi: “Vi ho chiamati amici, perché vi ho fatto sapere tutto quel che ho udito dal Padre mio”. Innestati nella vite, che è Gesù stesso, il Padre diviene il vignaiolo che ci pota per farci crescere. È la descrizione di quanto avviene nella preghiera: il Padre è il centro della nostra vita, Colui che ci ricentra, ci pota e ci rende un tutt’uno, e un’umanità resa tutt’uno rende gloria al Padre. Rimanere in Cristo è un atteggiamento interiore che mette radici in noi nel tempo, che richiede uno spazio per crescere e che può essere sopraffatto dalla quotidiana lotta per le necessità della vita, e minacciato dalle distrazioni, dal rumore, dalle troppe attività e dalle sfide della vita.

Rimanete nel mio amore: produrrete molto frutto

(cfr. Gv 15,5-9)

Anche quest’anno, dal 18 al 25 gennaio, si celebra la Settimana di Preghiera per l’Unità dei Cristiani.                   Si tratta di un tempo di grazia nel quale le diverse  Confessioni cristiane pregano per realizzare l’unità voluta da Cristo per la sua Chiesa e riflettono sui passi di riconciliazione compiuti finora, rinnovando la consapevolezza di essere tutte in cammino verso Cristo, “via, verità e vita”. Il Cristo, infatti, è l’unica “Vite” dalla quale traggono forza e nutrimento i numerosi tralci ed è proprio questa immagine evangelica che ha ispirato il tema guida dell’edizione 2021 della Settimana di preghiera: «Rimanete nel mio  amore: produrrete molto frutto» (Gv 15, 5-9). I frutti del dialogo tra le Confessioni hanno portato a ripensare nel corso della sua storia secolare questo appuntamento spirituale, inizialmente noto, fin dalla sua origine nel 1908, come Ottavario di preghiera per l’unità dei cristiani, affinché fosse sempre più occasione ed espressione del cammino comune verso l’unità. Il Sussidio è stato redatto dalla Comunità Monastica femminile di Granchamp, nata in Svizzera negli anni Trenta del secolo scorso da un gruppo di donne di tradizione riformata e che oggi conta una cinquantina di membri, tutte diverse per età, provenienza e tradizione ecclesiale. Le caratteristiche costitutive di questa Comunità – preghiera, vita comunitaria e ospitalità – sono la base delle riflessioni che proposte per la Settimana di preghiera di quest’anno, offrono una chiave di lettura originale ed ecumenicamente condivisa del sofferto e  complicato momento storico che stiamo attraversando e che coinvolge direttamente tutte le Confessioni cristiane. La preghiera, infatti, che ritma la vita monastica è mezzo e segno dell’unità, illumina la vita comunitaria e apre all’ospitalità. L’ascolto della Parola di Dio apre alla comunione d’intenti tra le Confessioni cristiane, getta luce sulle relazioni umane, facendo desiderare «di conservare il suo comandamento di amarci gli uni gli altri come lui ci ha amati». Ma quanto accade tra le mura del monastero diviene via e possibilità per tutti i discepoli di Cristo.

Venite, saliamo al monte del Signore

La vicenda umana sta tentando di distruggere il tempio, di fare a meno della sua elevazione a Dio, di costruirsi cioè un tempo vuoto di Dio, senza Dio e talora anche chiaramente determinato contro ogni ipotesi di Dio, contro ogni ritorno a Dio. Ma questa vicenda umana fatta di tempo senza Dio è una vicenda che non può procedere. La rinuncia al tempio è per l’uomo la rinuncia a vivere, è il tempo della vita sconsacrato; è un tempo che inutilmente si vive. Sarebbe opportuno un ritorno con  le proprie speranze e attese, i propri desideri, sogni e progetti, al senso sacrale e profondo della vita. Senza Dio non ha senso vivere, non ha senso desiderare la verità, desiderare la felicità, desiderare la giustizia. Non ha senso nulla.

Il nostro tempo deve essere nuovamente consacrato al Signore, per salire all’origine di tutto e al senso di tutto, che rimane Dio solo.

La vita non consacrata in Cristo perde rapidamente il suo senso. Soltanto la vita consacrata in Cristo diventa capace di produrre la persona giusta, il tempo della pace, l’èra della giustizia, la speranza nella bontà. Ecco il nostro camminare verso il monte di Dio: stiamo riconsacrando la vostra vita, fedeli al tempo di Dio

Una comunità cristiana innamorata del cielo

Potremmo vivere questo periodo, della pandemia, come una ripartenza per conoscere meglio Gesù Cristo. Quanti desideri legittimi o prospettive auspicabili nella vita odierna, frammenti che potremmo far diventare il tutto. Certamente appartengono alla totalità della nostra vita: ma noi siamo, come ogni essere umano, una domanda totale, ricercatori del senso ultimo di tutto. Assolutizzare un frammento, gonfiare un particolare è creare degli insoddisfatti. “Cerco il tuo volto, Signore!”. Cerchiamo insieme, come comunità cristiana, Colui, unico e grandioso, che è al fondo delle cose più belle e più buone. Dove e come trovarlo?

Non sottovalutiamo, non accantoniamo immediatamente le proposte di vita cristiana che ci vengono “offerte”. Non sono altro che opportunità che danno possibilità alla voglia di immenso che abbiamo nel cuore; per la voglia di verità, non di cose o di quantità, per la voglia di sapere che esiste nella nostra mente. Riporto una poesia di un  poeta russo, morto nel 1984 a 58 anni: era in campo di concentramento da quando ne aveva 21. Ha scritto poesie incidendole con un chiodo arrugginito sui sacchi del cemento fatti a pezzi, perché il potere non gli dava neanche la carta e la penna per scrivere. Il poeta è Valentin Sokolov: “Tutti vogliono una cosa sola: strapparti la bandiera. Ti convincono che non devi combattere, tanto c’è sempre da fare, tanto: a letto, a teatro, in cucina, sull’amaca, al ristorante, nel calduccio di casa tua. E, poi, a loro sei utile per ingrossare il numero, per nascondere quel Dio che sentono e temono: a letto, a teatro, in cucina, sull’amaca, al ristorante, nel calduccio di casa tua. Ma quando in faccia gli getti il tuo scherno e libero te ne vai e bello e forte, come potranno sapere a letto, a teatro, in cucina che vi sono ancora degli uomini innamorati del cielo?”.

Noi desideriamo appartenere alla generazione degli uomini che cercano Dio. Desideriamo appartenere alla generazione degli uomini a cui non bastano le cose, ma vogliono il senso delle cose. Mi augurio che nella comunità cristiana possiate trovare l’opportunità di incontrare Gesù Cristo, quale risposta alle domande. La parrocchia ne parla come della grande presenza nella vita ordinaria e quotidiana, perché in Lui abbiamo trovato risposta alla voglia di immenso.

Proviamo a fare un passo in avanti per cercare di definire meglio questo desiderio. Dio entra nel discorso umano come una parola, ma poi diventa una presenza, una compagnia. Quanto viene proposto non vuole essere una verità astratta: la voglia di immenso, è la voglia di un “tu”, di un’amicizia, di uno che sta dinanzi alla nostra grandezza e alla nostra povertà; di uno che ci prende come siamo, con il grande desiderio di vita che abbiamo dentro.

La liturgia è una danza

In questo periodo ci si è sentiti un po’ privati delle feste che forse eravamo abituati a fare con tante persone, con familiari, con amici. Però, nell’ambito della nostra fede, non siamo stati privati delle feste cristiane. Dopo le festività natalizie mi viene spontaneo rivolgere questo invito a tutta la nostra comunità parrocchiale: recuperiamo il senso cristiano della festa.

Vorrei proporvi, non imporvi, quello che ritengo sia la vera festa cristiana di cui tutti noi, nel proprio della nostra scelta religiosa, siamo i veri esperti: la liturgia. Le nostre celebrazioni dovrebbero avere l’abito della festa. In questo clima riusciamo a vivere o riscoprire la ricchezza che ci è data dalla liturgia: essa è una danza! A volte in essa si piange, si deve infatti anche piangere nella liturgia e a volte si loda con gioia, ma sempre c’è festa. Diventa necessario che insieme ci impegniamo non per cercare soluzioni alternative, ma per rendere al meglio quello che di meglio già abbiamo: le nostre liturgie siano festose e la nostra vita sia una danza, cioè una liturgia. Sono così numerosi i cristiani dal volto chiuso, teso, scavato dalla tristezza che opprime e separa dagli altri!

Guardiamo la Chiesa di Cristo che ha organizzato e organizza feste da sempre attorno alla famosa tavola che le ha trasmesso il suo caro Signore. È la divina liturgia, a volte una finestra del cielo, con i suoi canti, le sue danze, la sua musica e i suoi fiori, il suo incenso e i suoi ceri. Disprezzarla o sottovalutarla sarebbe negazione pura e semplice della natura umana e del fatto dell’Incarnazione di Dio. A tutti coloro che affaticano a vivere la liturgia cristiana auguro di incontrare spesso dei volti di festa di persone che non solo hanno assistito a delle liturgie, ma che ne sono stati talmente coinvolti da trasmetterne la gioia e il canto di lode. Ci auguriamo di ritrovate il gusto delle celebrazioni liturgiche, in modo particolare dell’Eucaristia, e vivere, sempre più numerosi, la bellezza della festa cristiana.

Il Monte della scelta

1 Alzo gli occhi verso i monti: da dove mi verrà l’aiuto?

Salmo 121

Continua la scalata della nostra comunità parrocchiale, in questo anno pastorale, sui Monti di Dio. Dopo essere saliti su quelli dell’Antico Testamento, il primo mese di questo nuovo anno iniziamo con quelli del Nuovo Testamento. Saranno i monti di Gesù che affronteremo fino al termine di questo anno pastorale.

Iniziamo con il  Monte della Scelta.

Mare, deserto e monte sono luoghi dell’attività di Gesù che ricordano l’esodo. La sinagoga e la casa ricordano la terra promessa. Gesù è salito per primo sul monte e da lì chiama. È la seconda chiamata, dopo quella del lago mentre i primi apostoli erano intenti a riassettare le reti dopo la pesca. “E fece dodici per essere con lui e per inviarli”. I Dodici sono la “piccola barca” dove il Signore è toccato e non schiacciato; sono la sua vera famiglia, che siede in cerchio attorno a Lui per ascoltare la parola e ricevere la rivelazione del mistero del Regno. Essi sono fatti espressamente per “essere con Lui”, il Figlio. Questa è la realizzazione dell’uomo che con Lui è se stesso. Solo così è vinta quella solitudine abissale che gli è costitutiva: fatto per Dio, solo con Lui colma il suo bisogno essenziale di relazione e di compagnia. Da qui scaturisce la missione. Infatti chi è unito a Lui impara a conoscere il cuore del Padre, e si offre con gioia ad andare presso chi ancora non  lo conosce, perché la sua casa sia piena e non lo è fino a che manca un suo fratello. Questa seconda chiamata è più profonda e spiega perché lo si segue. Ora la sequela diviene unione e intimità con Lui, dove si raggiunge la propria identità di figli. Il discepolo la conosce, e non può non portarla a tutti i fratelli. Questa seconda chiamata ci fa vedere l’essenza della Chiesa. Fatta per essere con Gesù ed essere inviata ai fratelli, ha Lui come unico centro, ed è un cerchio che si estende a tutti. Senza una di queste due dimensioni, delle quali una è particolare e personale, l’altra universale e comunitaria, decade dalla sua natura Gli apostoli l’avevano capito  molto bene. Fin dall’inizio, per tener sempre a disposizione questa piccola barca, dove Lui sta con i suoi e si muove verso gli altri, illuminati dallo Spirito, scelsero di tenersi sempre a disposizione della preghiera (= essere con Lui) e del servizio della Parola ( = essere inviati).

Gesù è l’Emmanuele, il Dio che è venuto per essere con noi, perché noi possiamo essere con Lui. Con Lui irradiazione della gloria di Dio e impronta della sua sostanza, l’uomo torna a riflettere l’immagine e la somiglianza della propria realtà, dalla quale si era allontanato per il peccato. Lui è il centro di gravità del nostro cuore, il polo di ogni nostro desiderio, il luogo naturale della nostra vita. Il discepolo fa parte di una comunità, incentrata non su se stessa, bensì su Gesù, che la apre sempre verso tutti È una persona libera, membro di un popolo in cui ciascuno è riscattato dalla morte, perché è con Colui che è. La prima chiamata fu a seguirlo, lasciando le reti; la seconda pone un salto di qualità: stare con Lui in intimità e amicizia. L’opera del Padre è attirarci al Figlio, per metterci con Lui, in sua compagnia, e inviarci così ai fratelli, perché tutti lo conoscano e lo amino. La lista dei Dodici si chiude con colui che lo tradì. Quest’unione è sempre insidiata dal divisore, che vede in ciò la sua sconfitta.

Cosa resterà del Natale?

Che cosa resterà in me, in ciascuno di noi, nelle nostre famiglie, nella nostra comunità
cristiana, nel nostro paese di san Fiorano di questo Natale?
Mi pongo e vi pongo questa domanda. Non vorrei proprio che queste Feste “finissero in niente di fatto” nella nostra vita personale e comunitaria. Fosse così, escluderemmo un Mistero che ci è dato proprio per un cambiamento della nostra vita, della nostra mentalità, dei nostri rapporti.
Il Natale è un evento di straordinaria bellezza, grazia e gioia: è la venuta di Cristo in mezzo a noi. Non è stato un semplice passaggio, ma una presenza continua, costante: ha posto la sua dimora in mezzo a noi. Da quel momento la storia umana non può non fare i conti (anche per una semplice serietà razionale, intellettuale) con questa presenza. La nostra esistenza non può non tenere conto di questo abitare del Figlio di Dio in mezzo a noi. È la certezza che Dio non si è dimenticato di noi, che ancora ci ama di un amore unico ed eterno. Troppo spesso l’inquietudine generata dalle esperienze dolorose che si incontrano inevitabilmente nella vita, produce una nebbia che offusca il nostro cuore rendendo la fiducia un sentimento desiderato, ma poco vissuto. La possibilità che ci è data dal Natale è che la sorgente della fiducia è possibile trovarla in Dio che è amore. La fiducia però non ignora la sofferenza, la sconfitta. Sono prove che ci interrogano: come è possibile, per chi è sostenuto da una vita di comunione in Dio, assumersi delle responsabilità concrete, quando tante volte ti sembra di perdere tempo, di non raccogliere i frutti, di dover solamente soffrire, dopo aver dato tanto tempo, energie e collaborazione? La fiducia che viene dal nostro intimo, anziché indurci a fuggire le responsabilità, ci aiuta ad assumere dei rischi, ad andare avanti anche quando sopraggiunge il fallimento. Dalla fiducia nasce un frutto stupefacente, che è la capacità di amare con un amore disinteressato. La fiducia e la speranza attingono alla misteriosa presenza di Cristo il quale vive in ciascuno di noi per mezzo dello Spirito Santo.
Per vivere la fiducia in Cristo, e non nelle e dalle persone pur le più rispettabili, stimabili e sante di questa terra, è essenziale aprirgli completamente il nostro cuore: per appartenere a Cristo e averne la consapevolezza, basta che il cuore sia pieno del semplice desiderio della comunione con Lui. Certo, seguire il Cristo comporta la fatica di una costante attenzione, ma dà in cambio tanta gioia, tanta pace, tanto chiarore. Se ci abbandoniamo a Lui, se gli affidiamo i nostri timori egli ci offre la possibilità di trovare un solido punto di appoggio. Alle persone diffidenti, alle persone perplesse, dico semplicemente: provate a mettere senza alcuna influenza esterna, senza condizionamenti, piccola parte del vostro tempo per un’informazione seria e approfondita della vita e del pensiero di Cristo. Provate a confrontarvi con Lui. Penso in modo particolare a quei genitori che confermano che si può vivere una vita umanamente buona e trasmetterla ai loro figli anche senza avere fede in Gesù Cristo.
Tenete presente che comunque Gesù Cristo ha segnato una parte della storia, che si voglia o no. In questa prospettiva perché non gettare “un’occhio”, almeno alla sua umanità, come lo si fa con l’umanità di personalità del presente e del passato?
Se Dio, in Gesù, si è unito all’uomo perché almeno non fare uno sforzo personale di maggior comprensione o conoscenza di questo uomo Gesù?

Battesimo del Signore

Gesù arriva al Giordano assieme alle folle che si recano da Giovanni il Battista per ascoltare la sua parole e per farsi battezzare. Questo il Battista proprio non se lo aspettava, perché il Messia non ha bisogno del perdono; è Lui piuttosto che lo porta e che lo offre. C’è una gradualità che deve essere onorata, sembra suggerire Gesù richiamando prima di tutto il tempo presente, “per ora”, perché ormai il ruolo di Giovanni sta concludendosi e il tempo è maturo per l’instaurazione di un altro battesimo. Al tempo presente occorre portare a compimento la “volontà divina”. Gesù sollecita ed educa Giovanni ad orientarsi verso la piena realizzazione della volontà divina. Uscendo dall’acqua “vide squarciarsi i cieli”. Il mondo nuovo si presenta come un’apertura del cielo: il cielo si apre, vita ne entra, vita ne esce. Si apre e accoglie, come quando si aprono le braccia agli amici, ai figli, ai poveri, all’amato. Il cielo si “squarcia” sotto l’urgenza dell’amore di Dio. Si apre e dona. Su ogni figlio scende una colomba simbolo dello Spirito, respiro di Dio. Questa immagine del cielo aperto continua a indicare la nostra vocazione: alzare gli occhi su pensieri altri, le vie che sovrastano le nostre vie; continua ad indicare che non abbiamo in noi la sorgente di ciò che siamo. Con questa fede possiamo anche noi aprire spazi di cielo sereno, da cui si affacci la giustizia per la nostra terra, dono che diventa conquista. Possiamo seminare segni di speranza, abitare la terra con quella parte di cielo che la compone.

Battesimo del Signore

Si conclude qui il tempo di Natale, con questa affermazione del Padre: “Tu sei il figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento”. È un bisogno fondamentale sentirsi riconosciuti, apprezzati, ma qui c’è anche qualcosa di più: il Padre si compiace di te. Compiacersi di qualcuno è più che provare stima o orgoglio per lui, è provare un piacere intimo, una soddisfazione particolare nell’apprezzare il suo valore. Il Padre prova dunque anche una gioia intima nel dichiarare il suo amore per te, suo Figlio. Se penso che il Natale ci ha condotti proprio alla riscoperta del nostro essere figli di Dio, allora non posso non credere che queste parole siano rivolte anche a ciascuno di noi. Io, gli altri, siamo gli “amati”. Vivere in questa condizione è rappacificante, ma è anche uno stimolo a rispondere a un tale amore. È in questa direzione che sono andati gli anni che tu hai vissuto nel nascondimento, un lungo apprendistato all’umanità, all’ascolto interiore del Padre nell’imparare ad essere Figlio dalle cose che hai vissuto e patito.

Siamo figli, è vero, ma dobbiamo imparare ad esserlo. Il segno che qualifica il tuo essere figlio è l’aver ascoltato la voce del Padre in quella di Giovanni il Battista e nell’averla accolta nel mettersi in fila, accanto a coloro che confessavano il loro peccato per farsi battezzare. Il Padre non poteva non notare la tua umiltà e bontà, la tua vicinanza e solidarietà con gli uomini, ragione della tua venuta, per non prorompere in questa frase proveniente dal suo cuore a conferma di ciò che sei e fai: “Tu sei l’amato”. Tocca ora a me, seguire la medesima tua via, mettermi al passo degli ultimi e seminare ovunque i germi universali della fraternità, così come ci ha ricordato il Papa parlando di S. Francesco: “solo identificandosi con gli ultimi arrivò ad essere fratello di tutti. Che Dio ispiri questo ideale in ognuno di noi”.

Epifania del Signore

“A Natale Dio cerca l’uomo. All’Epifania è l’uomo che cerca Dio”. Ed è tutto un germinare di segni. Come segno Maria ha un angelo, Giuseppe un sogno, i pastori un Bambino nella mangiatoia, ai Magi basta una stella, a noi bastano i Magi. Perfino Erode ha un segno; dei viaggiatori che giungono dall’Oriente, culla della luce, a cercare un altro re. Perché un segno c’è sempre, per tutti, anche oggi. Spesso si tratta di piccoli segni, sommessi; più spesso si tratta di persone che sono epifanie di bontà, incarnazioni viventi del Vangelo che hanno occhi e parole come stelle. L’uomo è la stella: “percorri l’uomo e troverai Dio” (S. Agostino). Perché Dio non è il Dio dei libri, ma della carne in cui è disceso.

Come possiamo diventare anche noi di segni, e non scribi sotto il cielo vuoto?

1. Il primo passo lo indica Isaia nella prima lettura di questa solennità: “Alza il capo e guarda!”.

La vita è estasi, uscire da sé, guardare in alto; uscire dal piccolo perimetro del sangue verso il grande giro delle stelle, delle mille sbarre dietro cui si racchiude e si illude il Narciso che è in me, verso l’Altro. Aprire le finestre di casa ai grandi venti.

2. Mettersi in strada dietro una stella che cammina.

Per trovare Cristo occorre andare, indagare, sciogliere le vele, viaggiare con l’intelligenza e con il cuore. Cercare è già un po’ trovare, ma non trovare Cristo vuol dire cercarlo ancora. “Andando di inizio in inizio, per inizi sempre nuovi” (Gregorio di Nissa). Camminando però insieme, come i Magi: piccola comunità, come loro fissando al tempo stesso gli abissi del cielo e gli occhi delle creature.

3. Non temere gli errori.

Occorre l’infinita pazienza di ricominciare, e di interrogare di nuovo la Parola e la stella, non come fa uno scriba, ma come fa un bambino. Come guarda un bambino? Con uno sguardo semplice e affettuoso.

4. Adorare e donare.

Il dono più prezioso che i Magi possono offrire è il loro stesso viaggio, lungo quasi due anni: il dono più grande è il loro lungo desiderio. Dio desidera che abbiamo desiderio di Lui.

5. Infine cercare Dio è cambiare strada.

I Magi non sono né turisti né vagabondi: hanno cercato, hanno trovato. Poi “Per un’altra strada fecero ritorno al loro paese”, e cercando non si sono tenuti la cosa per sé. Perché quando si è trovata la parola che cambia la vita, allora la gioia straripa, proprio come avvenne per loro che – racconta testualmente Matteo – “gioirono di una gioia grande assai”.

La notizia di avere incontrato Gesù suscita il desiderio di comunicarla agli altri. Da tante parti sale il grido, dov’è il vostro Dio? Che cosa rispondiamo. Hai incontrato Dio? Dov’è la sua casa, quale stella hai seguito? Dimmelo perché venga anch’io ad adorarlo. Credere amando, amare adorando, adorare donando, come i santi Magi: non è forse qui il senso di tutto?