Mettendoci un po’ di passione

Quante persone ho incontrato che si dedicano con passione nel cammino della fede! E quante di queste, sempre con passione, si fanno accompagnatori di altri. Magari da lungo tempo. Eppure non sono tramontati in loro la freschezza e l’entusiasmo dell’inizio. Solo vi si è aggiunta l’esperienza, che non è cosa da poco. Ecco due tratti fondamentali dei discepoli del Signore: l’entusiasmo e la convinzione.

Non vanno trascurate la preparazione e la competenza ottenute con il continuo aggiornamento, ma non sono queste le doti principali. Prima di ogni altra esigenza, c’è quella di credere seriamente e di vivere ciò che si trasmette. C’è un episodio negli Atti degli Apostoli che è illuminante a questo riguardo. Quando Pietro e Giovanni vengono arrestati, dopo la guarigione dello storpio alla porta del tempio, parlano davanti al Sinedrio con scioltezza e con forza persuasiva. Il che lascia tutti stupiti per il fatto che sono “senza istruzione e popolani”. Si manifesta, nei due apostoli, la franchezza che viene dallo Spirito Santo. Ma c’è anche la forza che viene dalla convinzione e dalla passione per quello che dicono e per colui di cui sono testimoni, cioè per Gesù Cristo. Capisco che non è sempre possibile essere entusiasti. È possibile, però, ed è necessario, essere convinti. Essere convinti non è la stessa cosa che essere appassionati. Ne è però la premessa necessaria. Quando alla convinzione si aggiunge l’amore per il Signore Gesù e per la Chiesa, allora quello che facciamo assume la vibrazione dei toni appassionati. Tanto più se si pensa che il nostro umile servizio si inserisce direttamente in quel percorso del Vangelo che attraversa tutta la storia dell’umanità, nella quale una generazione consegna all’altra il patrimonio della fede. Noi siamo un anello di questa catena generazionale, che in termine tecnico si chiama tradizione.

Dobbiamo lasciare un segno nella fede di non poche generazioni. Chi ci incontra o ci ha incontrato possa dire di noi: viveva con entusiasmo. Il Signore, il Vangelo, il servizio, la testimonianza era la sua passione. Si vede che siamo persone convinte di quello che diciamo. Si capisce che non parliamo perché bisogna dire alcune cose. Ci crediamo e le viviamo. A tutti vorrei dare un piccolo consiglio: ogni giorno fermati cinque minuti a pregare perché lo Spirito Santo ti aiuti a credere e a vivere quello che dici.

La vita è fatta di mattini

Non tutte le ore della giornata hanno lo stesso spessore, lo stesso valore. Le ore più preziose sono quelle del mattino. I romani avevano un detto molto bello e indovinato: “L’aurora ha l’oro in bocca”. Verissimo. Il mattino è prezioso. Romano Guardini, importante filosofo e teologo del ‘900, notava che “il volto del mattino risplende energico e luminoso più di ogni altra ora”. Al mattino il giorno è giovane, fresco, frizzante come un bambino. Al mattino il cervello e l’anima sono più agili e briosi, che non lungo tutto il corso della giornata. Che fare, dunque, in concreto, per non sciupare la vita mattutina? Semplice!

Rispettare i quattro precisi doveri che abbiamo verso di essa.

Primo dovere: svegliarci. Non basta alzarsi presto, bisogna svegliarsi presto! C’è chi si alza di buon mattino, ma si sveglia alla sera. Sveglia, dunque! Madeleine Delbrel, una mistica dei nostri giorni, consiglia: “Esci dal letto come la musica dalla sveglia”. Esci da letto e attacca subito. Chi perde un’ora al mattino, la cercherà invano per tutta la giornata. Insomma, prendo il mattino per mano e lo faccio crescere fino alla sera. Voglio dare alla mia giornata la possibilità di essere la più bella della vita.

Secondo dovere verso il mattino è quello di nutrirlo. Nutrirlo, certo, di cibo, ma anche di pensieri, di idee. Una breve lettura conserva lo smalto dell’anima; una breve meditazione è la miglior medicazione dello spirito. Il mattino si nutre, in particolare, con la preghiera. Il poeta francese Paul Claudel un giorno ha confidato: “Al mattino mi alzo, apro la finestra nel sole nascente e respiro Dio. Spalanco le braccia e respiro Dio, respiro l’opera di Dio! Tutto ciò in me passa dall’esterno all’interno”. A sua volta il cardinale Danielou diceva che il nostro è “il Dio dell’alba”. Intendeva dire che Dio sembra più vicino al mattino. Per questo, forse, è più facile pregare la mattino: “Io a Te, Signore, grido aiuto e al mattino giunge a te la mia preghiera”. (Salmo 87,14)

Terzo dovere verso il mattino: meravigliarmi di incontrarlo, ancora una volta. Forse non ci pensiamo, ma per poter svegliarsi al mattino è un miracolo! Il cardinale Ersilio Tonini era solito dire: “Ogni mattina celebro la mia nascita, con la gioia di venire al mondo!”. È bello vivere perché vivere è ricominciare sempre, ad ogni istante. Ad ogni mattina!

Ultimo dovere verso il mattino è quello di ascoltarlo. Il mattino manda messaggi preziosissimi. Basta intenderli. Uno è un messaggio di ottimismo: “Non pensare d’essere più vecchio di un giorno, ma più ricco di 24 ore nuove”. Un altro messaggio è un interrogativo sapientissimo: “A quale velocità vivi?”. Un terzo messaggio è un richiamo umanissimo: “Ricordati che anche oggi qualcuno ha bisogno di te!”. Grande mattino! Il mattino è la vita con le ali!

La fontana pubblica

San Bernardo

Ascolta il mio rimprovero e il mio consiglio. Se ti dai anima e corpo alle cose esterne, trascurando completamente la contemplazione, debbo, in questo, lodarti? Nemmeno per sogno. E credo che nessuno lo farebbe. Almeno tra quelli che han letto quelle parole di Salomone: “Quel che si perde in agire si acquista in sapienza”.

Vuoi essere interamente a disposizione di tutti? E sta bene. Lodo la tua generosità: a patto, però, che sia completa. Se tu te ne escludi, come può essere tale? Non sei un uomo anche tu? Se la tua generosità vuol essere perfetta, dal momento che abbraccia tutti, abbracci anche te. Altrimenti, come dice il Signore, cosa ti gioverà guadagnare il mondo intero, se perdi, poi, te stesso? Perciò, se tutti ti possiedono, possiediti anche tu. Perché solo tu dovresti rimaner privo del dono di te? Fino a quando sarai uno spirito che si effonde senza ritorno? Tu accogli tutti, perché non accogli, a tua volta, te stesso? Sei debitore dei saggi e degli stolti, solo a te non devi nulla? I dotti e gli ignoranti, i liberi e gli schiavi, i ricchi e i poveri, gli uomini e le donne, i vecchi e i giovani, gli ecclesiastici e i laici, i giusti e i peccatori, tutti han su di te la loro parte. Il tuo cuore è una fontana pubblica, dove tutti han diritto di bere. Tu solo devi rimanere in un angolo assetato? Non restare privo di ciò che ti spetta. Scorrano fin per le piazze le acque della tua generosità. Ci si dissetino pure gli uomini e le greggi. Offri da bere anche ai cammelli di Abramo, come Rebecca. Insieme con gli altri, però, accosta anche tu le labbra alla sorgente del cuore. “Lo straniero non ci beva” sta scritto. E saresti proprio tu lo straniero? E per chi non lo sei se sei straniero per te stesso? E chi è cattivo con sé, con chi sarà buono? Ricordati, quindi, di rientrare in te: non dico sempre, non disco spesso, ma, almeno, qualche volta. Tutti si servon di te: insieme con gli altri, o, per lo meno, dopo gli altri, servitene anche tu.

Il segreto di un cuore ospitale

Probabilmente alcune famiglie, nonostante il periodo anomalo, partiranno per le vacanze: un giusto tempo di riposo. Indipendentemente dal “partire o rimanere a casa”, il periodo estivo rappresenta, se non per tutti, per molti, un tempo di vacanza. Perché è così importante anche questo periodo dell’anno? Perché permette ad una persona di riposare, di “staccare la spina”, di ricaricarsi, sia nel corpo che nello spirito. Meglio se si riesce, anche per pochi giorni, ad allontanarsi dagli ambienti di vita normale.

Tutto di guadagnato (non in senso economico … anzi!) sia per sé, come per gli altri! Un piccolo consiglio che vorrei dare a tutti, è quello di “sfruttare” il tempo delle ferie soprattutto per imparare oppure crescere oppure rinnovare la capacità del silenzio interiore. Perché?  “Il silenzio interiore, quello che Dio benedice, non mi ha mai isolato dagli esseri. Mi sembra che essi vi entrino, e così li ricevo, come sulla soglia della mia casa. Ci vengono senza dubbio, ci vengono a loro insaputa. Ahimé, non posso che offrir loro un rifugio precario! Ma immagino i silenzi di certe anime come degli immensi luoghi d’asilo. I poveri peccatori, esaurite tutte le loro forze, v’entrano a tastoni, ci si addormentano, e se ne vanno via consolati senza conservare nessun ricordo del grande tempio invisibile, dove per un momento hanno deposto il loro fardello”.

Ho ritrovato questa frase di Georges Bernanos nel suo famoso Diario di un curato di campagna. Mi domando se nella mia anima ci sia un portico accogliente in cui tutti, davvero tutti, possano sostare. Per Bernanos il silenzio interiore è il portico accogliente della casa del cuore. La possibilità di riposare che offriamo discretamente a ogni viandante provato che incontriamo sulla nostra strada: un rifugio che non s’improvvisa, non si può rimediare all’ultimo, né è possibile simulare di possedere. Talvolta potremo anche riuscire a convincere gli altri d’essere magnanimi o addirittura virtuosi, ma non riusciremo a fingere d’essere persone di silenzio se non lo siamo veramente. Il silenzio interiore è una qualità dell’anima che mette radici un po’ alla volta se viene coltivata nell’umiltà e nel nascondimento, frenando la tendenza ipertrofica che l’io porta con sé quasi senza avvedersene: la propensione ad appropriarsi dell’ultima parola, a volerla avere troppo spesso vinta gridando magari per sovrastare gli altri.

Possedere un “cuore di silenzio” è farsi convinti che, anche se al momento può sembrare così, la verità, la correttezza e la lealtà pagano più dell’inganno e della menzogna. È uno stile misurato, discreto, sobrio e composto che pervade ogni cosa. Il silenzio interiore è il segreto di un cuore ospitale.Solo quando il nostro io, generalmente invadente, si ritira nei livelli più profondi dell’essere e del vivere, si crea in noi uno spazio vuoto e accogliente nel quale gli altri possono entrare e dimorare finalmente senza paure. In un cuore di silenzio, che non impone e non s’impone, anche il più povero dei viandanti si sente ricevuto e amato come un re.

La geografia dei vizi: la superbia

  • Un eccesso del desiderio di eccellere, che va oltre la giusta misura
  • Non riconosce il proprio bene come donato da un altro
  • Amore disordinato della propria eccellenza, di tutto ciò che innalza la propria persona e che viene ricercato appunto in vista di questo scopo.

La superbia si può manifestare sai nei confronti del prossimo che nei confronti di Dio. L’uomo che non vuol piegarsi dinanzi a Dio e ai suoi comandamenti. Il peccato per eccellenza che ha ferito l’umanità intera è stato in ultima analisi un peccato di superbia nei confronti del Creatore. Gli orientali distinguono tra vanagloria e orgoglio.

  • Orgoglio = il vizio soprattutto dei pagani che sono tentati di opporsi a Dio.
  • Vanagloria = dimenticanza di Dio.

Papa Francesco: un anno dedicato all’enciclica “Laudato sì”

Capitolo secondo – Il Vangelo della Creazione

Per affrontare le problematiche illustrate nel capitolo precedente, Papa Francesco rilegge i racconti della Bibbia, offre una visione complessiva che viene dalla tradizione ebraico-cristiana e articola la «tremenda responsabilità» (90) dell’essere umano nei confronti del creato, l’intimo legame tra tutte le creature e il fatto che «l’ambiente è un bene collettivo, patrimonio di tutta l’umanità e responsabilità di tutti» (95).

Nella Bibbia, «il Dio che libera e salva è lo stesso che ha creato l’universo» e «in Lui affetto e forza si coniugano» (73). Centrale è il racconto della creazione per riflettere sul rapporto tra l’essere umano e le altre creature e su come il peccato rompa l’equilibrio di tutta la creazione nel suo insieme: «Questi racconti suggeriscono che l’esistenza umana si basa su tre relazioni fondamentali strettamente connesse: la relazione con Dio, quella con il prossimo e quella con la terra. Secondo la Bibbia, queste tre relazioni vitali sono rotte, non solo fuori, ma anche dentro di noi. Questa rottura è il peccato» (66).

Per questo, anche se «qualche volta i cristiani hanno interpretato le Scritture in modo non corretto, oggi dobbiamo rifiutare con forza che dal fatto di essere creati a immagine di Dio e dal mandato di soggiogare la terra si possa dedurre un dominio assoluto sulle altre creature» (67).

All’essere umano spetta la responsabilità di “coltivare e custodire” il giardino del mondo (Gen 2,15) (67), sapendo che «lo scopo finale delle altre creature non siamo noi. Invece tutte avanzano, insieme a noi e attraverso di noi, verso la meta comune, che è Dio» (83).

Che l’essere umano non sia il padrone dell’universo, «non significa equiparare tutti gli esseri viventi e togliergli quel valore peculiare» che lo caratterizza; e «nemmeno comporta una divinizzazione della terra, che ci priverebbe della chiamata a collaborare con essa e a proteggere la sua fragilità» (90).

In questa prospettiva, Ogni maltrattamento verso qualsiasi creatura è contrario alla dignità umana (92), ma «Non può essere autentico un sentimento di intima unione con gli altri esseri della natura, se nello stesso tempo nel cuore non c’è tenerezza, compassione e preoccupazione per gli esseri umani» (91).

Serve la consapevolezza di una comunione universale: «creati dallo stesso Padre, noi tutti esseri dell’universo siamo uniti da legami invisibili e formiamo una sorta di famiglia universale, […] che ci spinge ad un rispetto sacro, amorevole e umile» (89). Conclude il capitolo il cuore della rivelazione cristiana: «Gesù terreno» con la «sua relazione tanto concreta e amorevole con il mondo» è «risorto e glorioso, presente in tutto il creato con la sua signoria universale» (100).

Le virtù teologali

Le tre virtù teologali: Fede, Speranza e Carità.

L’oscura parola “teologale” accanto a “virtù” significa una cosa molto semplice: queste virtù vengono date da Dio e non sono dotazione dell’armamentario caratteristico del nostro essere umani. Eppure nella prassi normale del nostro vivere capita che certe volte entriamo in un circuito di sensi di colpa prodotto proprio dalla Fede, dalla Speranza e dalla Carità. Tutto ciò si attiva perché pensiamo, senza rendercene conto, che la Fede, la Speranza e la Carità siano sforzi nostri, umani; e siccome il più delle volte non riusciamo a vivere a pieno la dinamica di questi tre doni, ci sentiamo in colpa, ci sentiamo mancanti.

Virtù teologali significa che stiamo parlando di un dono, e non di un dono qualunque ma di un dono del Cielo stesso. Nessuno in realtà è capace da solo di Fede, o di Speranza, o di Carità. Al massimo, umanamente, noi siamo capaci di fiducia, che è faccenda diversa rispetto alla Fede, siamo capaci di ottimismo, che è cosa diversa dalla Speranza, e siamo capaci di bene, che è materia diversa dalla Carità. Non basta la nostra fiducia nella vita per rispondere a tutto quello che tante volte la vita ci riserva.

A volte, si ha bisogno di un di più: questo di più è la Fede. Non basta avere una visione ottimistica delle cose per rimanere sempre in piedi, abbiamo bisogno di un di più che ci collochi in un orizzonte di senso più profondo, più alto, e questa è la Speranza. Non basta il bene per essere felici, abbiamo bisogno di una Carità più grande, più profonda, che ci liberi dalla logica umana del contraccambio e ci metta in quella divina della gratuità: ecco la virtù teologale della carità. Questo è il motivo per cui, quando ci accorgiamo di non avere questi tre doni, invece di star male e di sentirci in colpa, dovremmo fare la cosa più semplice al mondo: domandarli. La Fede è credere che Dio mi ama. La Speranza è sapere che al fondo di tutto ciò che esiste c’è un bene. La Carità è sapere che prima di tutto, prima di ogni altra cosa c’è l’amore.

Ma non siamo tutti giovani

L’ampiezza con cui si utilizza la parola “giovane”: di persona deceduta a 70 anni, è facile sentire affermare che “è morta giovane”; a un cinquantenne che aspira a qualche ruolo dirigenziale, nella società o nella Chiesa, è addirittura più comune che gli venga detto di pazientare, “sei ancora giovane”; viceversa se si parla di qualche fatto di cronaca che investe i ragazzi di scuola secondaria di primo grado, i giornali non ci pensano due volte  rubricarlo cotto “disagio giovanile” o “bullismo giovanile”.

Nel nostro tempo, “giovane” è diventato un aggettivo ecumenico: non conosce frontiere né alcuna sorta di limite. Giovane: è un essere in divenire. Indica inizio e fine. Se non è collegata all’idea di cammino (e quindi di inizio, di fine, di passaggio ad altro, di raggiungimento di una meta, che si trova altrove rispetto al punto di partenza), alla fine la parola “giovane” diventa una parola inflazionata, leggera: ecumenica, appunto.

Una parola per tutti e una parola per nessuno.

Se non c’è un dove, non c’è un cammino. Se non c’è cammino, non c’è verità della giovinezza. L’amore degli adulti per la giovinezza nega la possibilità stessa della giovinezza dei giovani. La ricerca da parte dei primi di un’impossibile giovinezza, oltre gli anni stabiliti, rende letteralmente impossibile la giovinezza vera, la giovinezza anagrafica dei secondi. Non è un caso pertanto che la nostra sia sempre di più una società che, amando moltissimo la giovinezza, destina i giovani veri all’oblio. È insomma una società di adulti che amano più la giovinezza che i giovani. Che cosa significa di per se essere giovane? Deriverebbe dal latino “iuven” e ha la stessa radice del verbo “iuvare” che significa essere utile, contribuire al bene comune. I giovani sono coloro che “aiutano”, coloro che portano un sostegno, un giovamento alla società. Possiede il meglio della forza fisica, il meglio della forza riproduttiva e il meglio della forza intellettiva e spirituale. È una straordinaria carica di energia, una vera e propria “cellula staminale”, capace di aiutare, di giovare alla società. Essere giovane indica, in sintesi, la forza di una novità e la novità di una forza.

La giovinezza è il lusso dell’aver tempo per decidere che tipo di persona essere e per questo le ragioni del suo charme non mancano, ma essa resta pur sempre in cammino: un cammino di scelte, di decisioni, di riappropriazione faticosa dell’eredità ricevuta e di restituzione originale della stessa. In ciò sta il suo fine e anche la sua fine. La parola “adulto” indica  –  etimologicamente  –  “cresciuto”, “compiutamente sviluppato”. Si diventa cioè come un albero ben piantato, che ha trovato il suo posto, ha messo radici e produce frutti, dispensando ombra e riparo al sottobosco.

Emergenza uomo

Proteggere la Terra, ricuperare il pianeta sta bene (anzi, benissimo!), ma se non si ricupera l’Uomo, è come restaurare la reggia e, nello stesso tempo, uccidere il re! Ben prima di ogni altro salvataggio, vogliamo salvare l’Uomo! Sì, perché la prima emergenza è qui: la scomparsa dell’umanità dall’uomo! Questo urge: riportare l’umanità nell’uomo.

Lorenzo Perone era un muratore nato a Fossano il 1904 e costretto dai tedeschi ad andare a lavorare in una fabbrica a Bruma Verke non lontana dal campo di sterminio di Auschwitz. La vicinanza della fabbrica al campo di concentramento, portò il muratore Lorenzo Perone ad incrociare gli occhi  dello scrittore Primo Levi. Come d’istinto, sentì che poteva fare qualcosa per il prigioniero! Così Primo Levi parla del nostro muratore: “Un operaio civile italiano mi portò un pezzo di pane e gli avanzi del suo rancio ogni giorno, per sei mesi, mi donò una maglia piena di toppe; scrisse per me una cartolina e mi fece avere la risposta. Per tutto questo, non chiese né accettò alcun compenso, perché era buono e semplice e non pensava che si dovesse fare il bene per un compenso.

Io credo che proprio a Lorenzo debbo d’essere vivo oggi; e non tanto per il suo aiuto materiale, quanto per avermi rammentato con il suo modo così piano e facile d’essere buono, che ancora esisteva un mondo giusto al di fuori del nostro, qualcosa e qualcuno di ancora puro e intero, estraneo all’odio e alla paura; qualcosa di assai mal definibile, una remota possibilità di bene, per cui tuttavia metteva conto di conservarsi. Grazie a Lorenzo mi è accaduto di non dimenticare d’essere io stesso un uomo!”.

Stupendo! Un pezzo di pane, gli avanzi del rancio, una maglia piena di toppe, il servizio dello scrivere: quattro semplici gesti di umanità che hanno salvato il corpo e l’anima di Primo Levi.

La geografia dei vizi: l’invidia

 Origine diabolica: invidioso della felicità dell’uomo, il demonio lo ha preso in odio e ne ha provocato la morte (“Ma per l’invidia del diavolo la morte è entrata nel mondo e ne fanno esperienza coloro che le appartengono” – Sap 2,24). Fin dalle sue origini lontane, lo schema “invidia-odio-omicidio” si applica sempre nello stesso senso: l’empio odia il giusto e si comporta come suo nemico.

Così Caino verso Abele, Esaù verso Giacobbe, i figli di Giacobbe verso Giuseppe, gli Egiziani verso Israele (Salmo 105,25), i re empi verso i profeti (1Re 22,8), i malvagi verso i pii dei Salmi, gli stranieri verso l’unto di Jahvè (Salmi 18 e 21), verso Sion (Salmo 129), verso Gerusalemme (Is 60,15).

Il termine viene dal latino che significa guardare male, con ostilità, non poter sopportare la vista. L’invidia è un modo di “guardare storto”. Ma cos è l’invidia? Forse non ci siamo mai posti questa domanda, anche perché la cultura che va per la maggiore l’ha molte volte camuffata abilmente chiamandola in mille modi diversi e tutti comunemente accettati: competizione, concorrenza, autorealizzazione, ecc. L’invidia è quell’atteggiamento che mette l’uomo contro l’uomo e non sopporta la diversità se non è sinonimo di inferiorità.