S. Bassiano, vescovo

Se Lodi fu a lungo ritenuta una “città miracolosa”, il merito è del suo patrono San Bassiano. Secondo la leggenda infatti, il santo di Siracusa, entrando in città come vescovo nel 374 d.C., guarì molte persone dalla lebbra, promettendo che nessun lodigiano ne sarebbe più stato colpito. E così fu.
I miracoli di Bassiano, erano in realtà cominciati assai prima, quando, ancora giovinetto, volendo diventare cristiano, riparò a Ravenna per sfuggire alle ire del padre di fede pagana.
Durante il viaggio, in un bosco egli incappò in una cerva con due cerbiatti che si accucciarono ai suoi piedi. Pur davanti alla scena di un animale selvatico ammansito, i cacciatori che li inseguivano non vollero rinunciare alla preda, e per questo caddero tramortiti a terra per mano di Bassiano, intenzionato a difendere gli animali. Si poterono rialzare solo dopo il suo perdono, ma da questa popolare leggenda l’attributo iconografico del santo, oltre al pastorale da vescovo, è proprio quella cerva. Il santo morì a ben 90 anni, nel 409, dopo una vita intensa e dopo aver partecipato anche ai funerali dell’amico Ambrogio. Le sue reliquie, poste prima nella Basilica di Lodi Vecchio, sono ora nella cattedrale di Lodi, dove il 19 gennaio si tiene la tradizionale Festa di San Bassiano.

L’unità dei cristiani

In questa Settimana, la Chiesa di Cristo invita i suoi figli a pregare per la così tanto desiderata, ma così lacerata nei secoli, unità visibile della Chiesa. Rivolge questo invito sempre inalterato nei momenti felici, nei momenti di guerra, di carestie, di malattie. Non lo rivolge riferendosi all’uomo, stressato da tante preoccupazioni e dalle tentazioni tramite le quali la nostra epoca cerca di distrarlo, rendendolo indifferente verso le questioni di fede, ma lo rivolge, perlopiù, alle conseguenze che queste distrazioni e tentazioni, in generale, portano, come la paura, l’angoscia, la mancanza di fiducia verso il prossimo, che potenzialmente rischia di diventare la causa della nostra sofferenza. L’umanità di oggi si richiude in se stessa, cerca di recidere i rapporti con il prossimo e vivere non soltanto in una separatezza fisica, ma in un isolamento spirituale, che fa crescere a dismisura la sua solitudine e la sua sofferenza psicofisica.

Arenandosi nella loro solitudine esistenziale, gli uomini e le donne di oggi gridano a se stessi e si chiedono: ma che valore può avere la nostra preghiera davanti alle tante divisioni che strappano l’unica tunica di Cristo? Che valore può avere la preghiera di fronte al dominio della morte? Non si può rispondere a queste domande, se prima l’essere umano non accetta spiritualmente il grande evento della Visita Divina. Tante volte le condizioni della vita umana induriscono il cuore e la grazia di Dio fa fatica a penetrarlo. Per poter capire e accettare chi è Colui che ci visita e al Quale rivolgiamo la preghiera, l’uomo deve preparare il presepio della sua anima, non tramite un cambiamento esteriore o attraverso uno sterile perfezionamento morale. Ci vuole la conversione di tutto il nostro essere, accettare Cristo come il Signore della nostra vita, accogliendolo nella nostra anima, pur sapendo che essa assomiglia più ad una stalla, riempita da tutto ciò che ci affligge e ci opprime. È molto bello il paragone che i Padri fanno tra anima e stalla.
Come Cristo si è degnato di nascere in una stalla, così si degna e sì rallegra quando entra nella nostra anima convertita

Stando insieme come comunità cristiana, pregando, elevando suppliche e dossologia al nostro unico Salvatore in ogni giorno di questa Settimana, nella celebrazione dell’Eucaristia, riviviamo anche noi misticamente quella notte, dove il cielo e la terra si sono uniti in un’unica lode. Illuminati dal comune battesimo, insieme siamo come piccole stelle che adornano in modo intellegibile il cielo spirituale della Chiesa di Cristo e l’intero universo. Una grande casa capace di accogliere il prossimo non come straniero ma quale fratello e sorella che cerca una famiglia dove trovare sollievo, luce e speranza.

«La vita non è quella che si è vissuta ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla».

In Russia nel XIII secolo furono abbandonati dei bambini e fu dato l’ordine di lasciarli vivere nel bosco, dove trovavano cibo ma senza rivolgere loro la parola, senza dare loro segni di affetto. 
Morirono. Sì, noi siamo umani perché ci viene rivolta la parola e perché parliamo. 
Le parole ci servono per vivere insieme; ma interiormente ogni parola ha una risonanza, accende immagini e pensieri, forgia emozioni e sentimenti.
Le parole sono come sassi scagliati in una pozza: anche il più piccolo provoca un fremito dell’acqua. 
Per questo occorre fare attenzione quando si parla. Bisogna evitare i toni apodittici, perentori, la parola
che vuole imporsi: occorre rispettare la persona che ascolta e la sua dignità; evitare le affermazioni in cui risuonano i paragoni tra le persone; evitare le parole che esigono dagli altri, che ci fanno sembrare persone che danno ordini; evitare “si deve”, “bisogna”, perché queste espressioni negano agli altri discernimento e libera decisione, soprattutto la scelta. Così la comunicazione si spoglia dell’aggressività e può avvenire nella mitezza. Ma ci sono altri pericoli nel linguaggio, a cominciare dall’uso di un doppio linguaggio, di parole contrastanti con i segni o viceversa. Non si devono avere parole e comportamenti contraddittori, in particolare con i bambini, perché si instilla in loro la sfiducia. Un altro pericolo è parlare dell’altro parlando di noi stessi. È facile questa patologia che proietta sugli altri i nostri bisogni e sentimenti, peggio ancora i nostri progetti. L’altro è altro, e occorre rispetto anche nell’amore più forte e passionale.
L’altro deve accendere in me la responsabilità, deve darmi il desiderio di esercitarmi nella bontà e di aiutarlo a crescere nella bontà. È capitale, perché si deve stare insieme, tra amici o amanti, innanzitutto per questo: si sta insieme per farsi del bene, per diventare più buoni. L’uno ha la responsabilità di rendere più buono l’altro. Infine, nel linguaggio occorre vigilare per non diventare negativi, lamentosi, sempre in
collera o abitati dalla rabbia. Succede sovente alle persone iperattive, ma è una situazione che genera
tristezza. Chi si lamenta sempre, vede poco alla volta gli altri allontanarsi da sé. 
Invece è cosa buona comunicare l’essenziale, semplificare, dire tutto con calma e dolcezza, e raccontare: mi sembra l’unica maniera per parlare senza lamentarsi, ma raccontando il mondo e ciò che si vive.
Dirsi all’altro è sempre un’opera di distacco da sé, per poter trasmettere non la propria verità ma la bellezza e i significati possibili della vita: è un’opera di speranza e di fiducia nel mondo. 

Cammini d’amore

La fedeltà del giorno per giorno all’orazione, ai nostri doveri realizzati con amore, si trasforma in un processo che rende straordinario l’ordinario. Abbiamo grandi santi straordinari. Ma ciò che sta ora sulla cresta dell’onda sono i santi ordinari, piccoli nella vita ma grandi nell’amore, come Santa Teresina. Questo spiega il senso della spiritualità del tempo ordinario. È come preparare il pranzo: se fatto con sapore, esso alimenta non solo il corpo, ma anche il cuore. Il sapore è sempre differente. Il pranzo preparato dalla madre non ha solo il sapore ma anche l’amore. Questo amore fa del cibo un legame che unisce. Così è anche del vivere quotidiano; ci doniamo il sapore dello stare uniti, del servire gli altri, nel compimento del dovere. Tutto fatto con amore, è questo che diventa straordinario. Un grande gesto è bello. Un gesto permanente diventa vita.

Nella gioia di vivere

La spiritualità del Tempo Ordinario ci fa scoprire che la vita non è fatta solo di grandi momenti, di grandi eventi, ma di fatti piccoli e soprattutto costanti. Anche la natura ha i suoi  temporali e le sue giornate di bel tempo. Poi c’è il quotidiano del giorno che inizia e della notte che finisce, e diciamo: sempre la stessa cosa! Ci sembra tutto uguale, abbiamo orari, usanze, manie. Ogni giorno può essere, come un bicchiere d’acqua, gustato con piacere. Partecipare la vita: della famiglia, della società, della natura, può essere percepito come dono che genera allegria e crescita.
Lo stesso gesto, fatto con gratuità, si trasforma per noi in un elemento di crescita, allo stesso modo dell’alimento per il corpo: è sempre lo stesso, ma dona sempre vita nuova. Anche il dolore e la sofferenza possono, anche se è difficile, diventare liberatori. La spiritualità del popolo rifiuta la sofferenza e non è capace di percepire in essa il valore della vita, che invece possiede. La croce libera. Certamente dobbiamo curarci, ma anche comprendere che la fragilità fa parte della vita.

Un tempo molto comune

Con la vita che scorre.
Nella liturgia abbiamo diversi tempi. Il più importante è il tempo Pasquale. Dopo abbiamo il Tempo di Natale (che abbiamo appena terminato) e per finire il Tempo Comune o Ordinario (che iniziamo) che occupa 34 settimane dell’anno. È il più grande come estensione e non è meno importante degli altri tempi. In esso non celebriamo un mistero particolare della vita del Signore. Celebriamo ogni settimana, in modo particolare la Domenica, il mistero di Cristo e della Chiesa nella sua globalità. In questo periodo celebriamo con maggiore intensità le feste di Cristo, della Vergine Maria e dei Santi. Così come scorre la vita, percorriamo i cammini del Signore che si intersecano con i nostri. La nostra storia diventa storia di salvezza. Il Tempo Ordinario è una scuola di spiritualità per la vita cristiana. In esso, il Mistero dell’Incarnazione e la Nascita di Gesù si incarnano nella nostra vita. In esso, la Pasqua di liberazione e la Pasqua della Nuova Alleanza, rivivono settimanalmente nel giorno del Signore, la Domenica, e la nostra vita spirituale cresce e prende forza. Così ci prepariamo all’incontro del Signore. In questo tempo, si potrebbe dire: ma è sempre la stessa cosa! invece è così che impariamo a conoscere il valore di ciò che è comune e ripetitivo nella nostra vita. Ogni momento, anche facendo e vivendo la stessa cosa, non viviamo una monotonia, ma un tempo sempre nuovo, poiché ogni momento è un morire e un rinascere. Tutti i tempi grandi derivano da altri tempi che sono il loro piccolo fondamento. In ogni momento viviamo la Nascita e la Pasqua di Cristo. Egli dice sempre: “Ecco che faccio nuove tutte le cose”. La vita fluisce, e ci conduce ad un bella meta.

Che cosa cercano? (3)

I vuoti che sempre di più vengono lasciati nella comunità cristiana, tra le altre cose, dovrebbero pesare sull’anima dei credenti e di quanti hanno a cuore la vita della Chiesa. Le assenze, oltre alle responsabilità proprie e personali, parlano di una Chiesa che affatica nella sintonia con le persone e, prima ancora, con
il Vangelo. Le varie prese di distanza sono un invito ad un nuovo modo di credere: più fedele al Vangelo; capace di coinvolgere tutta la persona: cuore, mente, emozioni, corpo, scelte, progetti di vita.
È necessario comprendere che si può credere con i propri dubbi, con le proprie e altrui fragilità, con i propri e altrui tradimenti: affidarsi alla misericordia significa credere che Dio si prende cura della nostra umanità ferita, e vorrebbe guarirla.
Credere è un giogo leggero, di cui parla il Vangelo. È questa una fede bella per tutti.

“Anime sfiduciate non vedono altro che tenebre gravare sulla faccia della terra. Noi, invece, amiamo riaffermare tutta la nostra fiducia nel Salvatore nostro, che non si è dipartito dal mondo, da Lui redento. Anzi, facendo nostra la raccomandazione di Gesù di saper distinguere “i segni dei tempi”, ci sembra di scorgere, in mezzo a tante tenebre, indizi non pochi che fanno bene sperare sulle sorti della chiesa e dell’umanità”.

Con queste parole, il 25 dicembre 1961, nella Bolla Humanae salutis di indizione del Concilio, Giovanni XXIII introduceva la categoria di “segni dei tempi” che divenne poi una cifra di riferimento per esprimere l’atteggiamento nuovo della Chiesa nei confronti del mondo. È necessario osservare il mondo puntando diritto lo sguardo sulla figura di Gesù, motivo di fiducia e di speranza per ogni epoca della storia.
Si tratta di una lettura di fede della storia che cerca i “germogli di bene”.

Riprende per la nostra comunità parrocchiale la proposta settimanale del Giovedì Eucaristico (esposizione del Santissimo Sacramento per l’adorazione personale). Riprende dopo il tempo liturgico del Natale e riprende sull’esempio dei Magi (Epifania).
Non possiamo non fare nostro (comunità parrocchiale) il gesto dei Magi raccontato nel Vangelo di Matteo («Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo») per sottolineare che adorare è il traguardo del loro percorso, la meta del loro cammino. Infatti, quando, giunti a Betlemme, “videro il bambino con Maria sua madre, si prostrarono e lo adorarono. Se perdiamo il senso dell’adorazione, perdiamo il senso di marcia della vita cristiana, che è un cammino verso il Signore, non verso di noi. È il rischio da cui ci mette in guardia il Vangelo, presentando, accanto ai Magi, dei personaggi che non riescono ad adorare.
C’è il re Erode, che utilizza il verbo adorare, ma in modo ingannevole. Chiede infatti ai Magi che lo informino sul luogo dove si trovava il Bambino “perché – dice – anch’io venga ad adorarlo”. In realtà, Erode, adorava solo sé stesso e perciò voleva liberarsi del Bambino con la menzogna. Che cosa ci insegna questo? Che l’uomo, quando non adora Dio, è portato ad adorare il suo io. Quante volte abbiamo scambiato gli interessi del Vangelo con i nostri, quante volte abbiamo ammantato di religiosità quel che ci faceva comodo, quante volte abbiamo confuso il potere secondo Dio, che è servire gli altri, col potere secondo il mondo, che è servire sé stessi!
Oltre a Erode, ci sono altri personaggi che non riescono ad adorare Dio: i capi dei sacerdoti e gli scribi del
popolo: «Essi», indicano a Erode con estrema precisione dove sarebbe nato il Messia: a Betlemme di Giudea. Conoscono le profezie e le citano esattamente. Sanno dove andare, ma non vanno. Anche da questo possiamo trarre un insegnamento. Nella vita cristiana, non basta sapere: senza uscire da sé stessi, senza incontrare, senza adorare non si conosce Dio. La teologia e l’efficienza pastorale servono a poco o nulla se non si piegano le ginocchia; se non si fa come i Magi, che non furono solo sapienti organizzatori di un viaggio, ma camminarono e adorarono. Quando si adora ci si rende conto che la fede non si riduce a un insieme di belle dottrine, ma è il rapporto con una Persona viva da amare. È stando faccia a faccia con Gesù che ne conosciamo il volto.
Adorando, scopriamo che la vita cristiana è una storia d’amore con Dio, dove non bastano le buone idee,
ma bisogna mettere Lui al primo posto, come fa un innamorato con la persona che ama.
Così dev’essere la nostra Comunità parrocchiale, un’adoratrice innamorata di Gesù suo sposo.

Che cosa cercano? (2)

Nelle prime pagine della Scrittura si legge che Dio passeggia nel giardino in cui ha collocato le creature che sono appena uscite dalle sue mani. È un Dio che cerca l’uomo e la donna con cui si intrattiene come con amici. Possiamo immaginare la gioia di Dio che cerca Adamo ed Eva, che però dopo il peccato si nascondono. La consuetudine legge in quel: “Adamo dove sei?”, un timbro inquisitorio e di condanna. La Bibbia non lo dice, ma è il nostro senso del peccato che prevale e porta a fare di questo straordinario testo della Scrittura, quello dell’amicizia tra Dio e l’uomo, cercato da Dio come amico gradito e amato, il testo del rimprovero e del giudizio.
Quante sono le pagine della Scrittura che sono state oggetto di questa interpretazione, che sovrappone all’intenzione dell’autore quella visione della vita che guarda all’uomo e alla donna con sguardo colpevole? Guardare al Vangelo liberandolo dalle incrostazioni sacrificali che ne hanno imprigionato la bellezza lo avvicinerebbe alla sensibilità di più persone. Dio ha il volto amabile di Gesù di Nazaret, che è stupito per la bellezza dei gigli del campo, che ha incontrato con tenerezza gli amici e con passione molti volti, che ha raccontato la passione del Padre che attende e corre incontro al figlio che se n’è andato di casa. Questa è la fede di coloro che sono assetati di vita e desiderano la gioia esplosiva per aver incontrato il messaggio liberante, pieno di amore e di passione, di un Dio amante della vita.

Che cosa cercano? (1)

La domanda mi nasce pensando a quale fede la nostra comunità cristiana intende proporre.
Ritengo che vorremmo trasmettere un cristianesimo che ama la vita, un Dio alleato al nostro desiderio di vita piena. In fondo, mi sembra di poter dire, la scrittura ci presenta proprio un Dio così: non si spiega il messaggio cristiano se si prescinde da questo spirito.
Eppure nel tempo, anche questo mi sembra di aver percepito, sopra questo messaggio gioioso si è depositata la polvere di un modo di interpretare la parola di Dio triste e pessimista, che ha dato al messaggio cristiano un timbra sacrificale e al volto di alcuni cristiani i tratti funebri.
Faccio un esempio molto semplice di questo effetto interpretativo.