La parola crisi, onnipresente nel nostro linguaggio (tutto è in crisi, c’è la crisi di tutto), viene abitualmente spesa con la connotazione negativa di “rottura di un equilibrio, di una stabilità”, “destrutturazione”, “perdita di valore”, che ha il suo esito finale nella catastrofe o nel collasso di un sistema. Solo a partire da questo senso negativo se ne recupera, in modo quasi paradossale, una accezione positiva, ma solo in modo secondario: così si parla ad esempio di “crisi di crescita”, un po’ come si dice che un organismo può uscire temprato da una malattia o da una difficoltà.
In realtà la crisi ha un valore positivo che sta nella sua origine, che è appunto legata alla categoria di giudizio. Crisi è infatti il giudizio che separa, cioè che “discrimina”: il vero dal falso, il bene dal male, il bello dal brutto … È un procedimento fondamentale del vivere umano: anche quando uno si mette semplicemente a riordinare la casa, tanto per dire, opera una “crisi”, nel senso che separa le cose da tenere e quelle da buttare, eccetera. Il problema è che noi oggi siamo condizionati dall’essere immersi in un ambiente culturale in cui sul concetto stesso di giudizio grava un pesante fraintendimento, e di conseguenza una diffusa diffidenza. “Giudicare” equivale per molti a “condannare”, “rifiutare”, o “respingere” e non è raro che anche all’interno della Chiesa vi sia chi lo considera un comportamento essenzialmente antievangelico.
