L’uomo percepisce le emozioni e impara a nominarle perché incontra qualcosa o qualcuno che gli fa da specchio e permette il processo di riconoscimento. Chiamiamo questa dinamica “empatia”, che non significa semplicemente “essere nei panni dell’altro”, ma più profondamente scoprire che io sento l’emozione dell’altro perché è come la mia e, reciprocamente, codifico la mia perché la percepisco nell’altro.
Tale processo, inoltre, è veramente maturo quando passa attraverso il riconoscimento, la riflessività e la consapevolezza cognitiva. Tramite l’empatia è possibile percepire l’esperienza e il vissuto dell’altro pur restando all’interno della propria prospettiva personale. Allo stesso tempo, mentre si impara a sentire come sente l’altro, si scopre la sua trascendenza, irriducibile nella sua alterità, al punto che sarà sempre impossibile sostituirsi realmente al suo vissuto. È come se, attraverso l’atto empatico, il soggetto avesse la possibilità di assumere il punto di vista dell’altro, senza però confondersi in lui. È fondamentale, quindi, ricordarsi che l’alterità è necessaria proprio per la costruzione e riconoscimento della propria identità: l’Io si dà sempre con un Tu. L’altro è misura e condizione di giudicabilità, non come atto negativo, ma come occasione di confronto e riflessione. Questa consapevolezza ha sempre orientato la spiritualità cristiana, soprattutto l’approccio mistico al mistero di Dio: la forma d’amore che unisce il Creatore alla creatura, infatti, non è mai di tipo fusionale. Ciò significa che il prezzo del rapporto con Dio, per un cristiano, non è mai l’annullamento di sé, come invece avveniva in altre forme di misticismo antico o avviene oggi in alcune proposte spirituali. La forma del legame cristiano di carità è sempre un’«unione nella (non oltre la) differenza».
