Vite stressate e vita eterna (2)

Una delle ferite che maggiormente patiamo, non certo da oggi, nasce dalla percezione che, in fondo, la nostra vita non ci appartenga, che qualcun altro ne regga le fila, che noi possiamo cercare di progettare qualcosa di importante ma che, spesso, sopravvenga qualcosa a metterci i bastoni fra le ruote, a renderci impossibile il perseguimento dei nostri progetti.
E quando vediamo che ciò che ci eravamo posti come scopo non potrà realizzarsi o che, per raggiungere i nostri obiettivi, dobbiamo continuamente cedere a compromessi, ecco che subentrano alternativamente la frustrazione, la rabbia e, infine, la rassegnazione: una sorta di accettazione triste del fatto che, nelle cose della vita, “va così e non possiamo farci niente”.

La rassegnazione è definita dal dizionario come “la disposizione ad accogliere senza reagire fatti che appaiono inevitabili”. Per la tradizione cristiana, di rassegnazione si è parlato a lungo anche come di una virtù, come dell’accettazione dell’inevitabile, della consapevolezza che tutto sia nelle mani di Dio e, di conseguenza, a noi non resti che chinare il capo e umilmente accogliere quel che la vita ci riserva. Ma è davvero così? Oggi, in una postmodernità in cui l’uomo ha ormai compreso che la sua centralità nel mondo non è così scontata come solo qualche decennio fa si pensava, si tende a percepire la rassegnazione come l’inverso della resilienza, altra parola che è entrata prepotentemente nel vocabolario contemporaneo.