Ecco perché festeggiamo la regalità della Madre di Dio (2)

Dal punto di vista umano è difficile attribuire alla Vergine un ruolo di dominio e regalità, lei che si è proclamata serva del Signore. 
Per gli Atti degli apostoli Maria dopo l’Ascensione si trova in mezzo agli Undici raccolta con essi in preghiera; ma non è lei che impartisce ordini, bensì Pietro. 
E tuttavia proprio in quella circostanza ella costituisce l’anello di congiunzione che tiene uniti al Risorto quegli uomini non ancora irrobustiti dai doni dello Spirito Santo. 
Maria è Regina perché è madre di Cristo, il Re, e distribuisce regalmente e maternamente quanto ha ricevuto dal Re poiché lo stesso Cristo ha disposto che ogni grazia passi per le sue mani di Regina. Per questo la Chiesa invita i fedeli a invocarla non solo col dolce nome di madre, ma anche con quello ossequioso di regina.

Ecco perché festeggiamo la regalità della Madre di Dio (1)

Dovuta a papa Pio XII che la istituì con la lettera Enciclica Ad caeli Reginam nel 1954, la festa della Regalità di Maria Vergine nel calendario liturgico era inizialmente prevista il 31 maggio, a conclusione del mese mariano per eccellenza. Oggi, si celebra sette giorni dopo il 15 agosto e questa collocazione va letta come uno speciale prolungamento della celebrazione dell’Assunzione, con cui si contempla Colei che, assisa accanto al Re, splende come Regina. La data del 22 di agosto è dovuta a papa Paolo VI che, con l’attuazione delle norme generali per l’Anno Liturgico e il nuovo Calendario Romano, ha felicemente collocato la regalità di Maria a breve distanza dalla sua Assunzione in Cielo, facendola diventare una logica conseguenza del dogma promulgato da papa Pio XII nel 1950.

Eucaristia per la vita quotidiana

L’Eucaristia, in forza della sua propria e specifica integralità, deve essere per la vita quotidiana.
Cosa dire sull’espressione vita quotidiana? Essa si presenta in modo molto più complesso di quanto a prima vista si potrebbe pensare.
Innanzitutto occorre affermare che tale espressione si riferisce all’esperienza della vita comune propria di tutti gli uomini. Parliamo della vita, ciò in cui tutti noi, per il fatto di essere uomini e donne, siamo immersi. Il quotidiano è l’humanum in sé e per sé.
In secondo luogo parlare di vita quotidiana significa primariamente riferirsi alla dimensione del tempo come costitutiva dell’umana esperienza dell’esistenza. L’etimologia di quotidiano ci rimanda all’avverbio latino “quotidie”, di ogni giorno. Esso da una parte ci richiama la dimensione del presente: è quotidiano ciò che è oggi. Dall’altra ci ricorda la dimensione della continuità: è quotidiano ciò che è di ogni giorno.
Le due dimensioni, presente e continuità, ci permettono di identificare le costanti dell’esperienza umana che, riproponendosi in ogni tempo e in ogni luogo, ci fanno appunto parlare di vita quotidiana.
L’Eucaristia è veramente per, cioè illumina ed edifica la vita quotidiana in tutti questi suoi risvolti.
Si tratta, pertanto, di celebrare l’Eucaristia perché possa avere rilevanza sulla mia vita quotidiana.

Il tempo del riposo

E Gesù disse loro: «Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po’». Erano infatti molti quelli che andavano e venivano e non avevano neanche il tempo di mangiare (Marco 6,31).

L’evangelista Marco racconta il ritorno dei discepoli dalla missione: hanno sperimentato la potenza della Parola, ma anche la fatica e il rifiuto. Gesù li invita al riposo, in un luogo solitario, in sua compagnia: «Venite in disparte, voi soli, e riposatevi un po’».
Mi pare che qui si intenda il riposo come uno staccarsi dall’assillo delle solite e troppe cose. […] L’importante è che la tua vacanza non si riduca a uno “staccarsi” che ricade in un altro affanno.
Anche in vacanza, infatti, si può essere sommersi da troppi desideri e da troppe cose. Occorre una scelta e una purificazione, occorre un modo diverso di vivere il tempo e di guardare ciò che ci circonda.
Certamente si può vivere la pausa della vacanza in diverse maniere. Ma una modalità suggerita, per fare un esempio, dai Salmi 104 e 65, ci sembra fondamentale. Il Sal 104 è un inno agli splendori della creazione, una sorta di canto delle creature. O meglio: un inno a Dio che ha creato tutte le cose, e continua a prendersene cura. Osservando le creature, il salmista contempla Dio. Ma al tempo stesso – pieno di ammirazione e di gratitudine – vede che le cose di Dio sono sotto i nostri occhi, create da Dio perché le guardiamo, per goderle. Non costano nulla, e proprio perché non costano nulla – quindi non fatte da noi – sono da guardare: da guardare proprio perché non sono nostre, ma di Dio e, dunque, di tutti. Non si tratta necessariamente di cose grandiose, ma anche di cose normali, apparentemente piccole, povere, eppure bellissime. […]
La semplicità – ma potremmo anche dire la sobrietà – non è necessariamente rinuncia, ma un modo diverso di guardare. Siamo convinti che le cose di Dio sono doppiamente belle: belle perché regalate, doni goduti ma non posseduti; perché sempre a disposizione di chiunque.

O Dio, donaci del tempo. Impediscici di voler andare più veloci di quello che consente l’onda lunga del nostro cuore. Fa’ che abbiamo pazienza con noi stessi, perché il tempo fa progredire e risana, anche quando la sua lentezza ci innervosisce e siamo disturbati dal suo ritorno di fiamma.
Donaci del tempo per prendere e per apprendere perché non siamo proprio fatti per vincere senza convincere, per afferrare senza abitare, né per percorrere senza soggiornare.
Donaci la tenerezza che accompagna il desiderio e che permette l’amore.
Donaci anche del tempo per metterci a distanza e per guarire. Donaci di ritrovare il percorso della nostra esistenza attraverso i roveti delle passioni e il pietrame dei nostri graffi.
Donaci di accettare che il tempo della convalescenza proceda tanto lentamente quanto quello della febbre.

Con cuore di Padre

Breve riflessione nell’anno di San Giuseppe

Gesù ha vissuto trent’anni della sua vita nel silenzio e nascondimento della quotidianità di Nazaret. È una cosa che sovente dimentichiamo: la maggior parte della vita di Gesù è accaduta nella ferialità. Noi siamo spesso spaventati dalle cose di ogni giorno. Ci spaventano i giorni che si ripetono e le cose che si ritualizzano. Andiamo sempre alla ricerca di una novità, di una trasgressione. La maggior parte dei nostri peccati nasce come forma di evasione della nostra routine. Eppure, il campo della quotidianità deve nascondere un tesoro che dobbiamo imparare a trovare. Ce lo dice il Vangelo, quando ci fa intendere che il prima della vita di Gesù è la sua grande rincorsa al dopo, cioè alla sua vita pubblica. In fondo tutto quello che desideriamo nella vita lo possiamo avere solo se siamo preparati ad accoglierlo. È la fedeltà al poco di ogni giorno che ci prepara al molto che ci riserva la vita, e questo non solo nel bene ma anche nel male. Chi non è capace di bene nelle piccole cose delle sue giornate, quando gli accadrà l’occasione della sua vita rischierà di sprecarla, perché non è allenato alla fedeltà del bene.
Allo stesso modo che non si è allenato ad accogliere e affrontare le piccole mortificazioni di ogni giorno, si troverà completamente impreparato quando dovrà scontrarsi con qualche croce più grande.
Come un atleta sa che il tempo dell’allenamento è propedeutico alla gara, così per ognuno di noi la quotidianità è propedeutica a ciò che la vita ci riserverà.

Un corpo trasfigurato dall’amore

Sacerdote cattolico di origine olandese, Henri Nouwen si è trasferito negli Stati Uniti dove ha insegnato teologia spirituale in prestigiose università come Notre Dame, Yale e Harvard. All’età di 54 anni aveva già scritto molti libri ed era un autore conosciuto ed apprezzato. Decise di operare un cambiamento di rotta significativo ed entrò nella Comunità dell’Arche a Daybreak, vicino a Toronto, in Canada. Il movimento dell’Arche di Jean Vanier è uno di quei luoghi in cui le persone ferite vivono in comunità. Le persone che portano un handicap fisico e spesso anche mentale formano il cuore della comunità di vita. Attorno a loro ci sono gli altri, gli assistenti. Essi vivono insieme in una vicinanza impressionante e in nessun’altra parte si avverte più profondamente quanto anche i “sani” siano feriti nel corpo e nell’anima, e hanno bisogno di un guaritore. È proprio lì che Nouwen impara da vicino, per esperienza, cosa sia l’incarnazione. «L’Arche è costruita sul corpo e non sulla parola. Questo aiuta a spiegare la mia lotta nel venire all’Arche. Finora tutta la mia vita è stata centrata sulla parola: imparare, insegnare, leggere, scrivere, parlare. Senza la parola la mia vita è impensabile […]. La comunità dell’Arche è una comunità formata intorno ai corpi lesi degli handicappati. Nutrire, pulire, toccare, tenere; è questo che costruisce la comunità. Le parole sono secondarie. La maggior parte degli handicappati ha poche parole per parlare, e molti non parlano affatto. È il linguaggio del corpo che conta di più. “Il Verbo si è fatto carne”: è questo il centro del messaggio cristiano». Perché vi propongo queste riflessioni per la festa dell’Assunzione? Forse perché il vangelo di oggi ci racconta l’incontro di due donne che portano nel loro corpo il segno tangibile della presenza di Dio. Elisabetta, la donna anziana e sterile che sta per partorire, e Maria, la vergine di Nazaret, nel cui grembo è stato concepito Gesù, sono testimoni della stessa realtà: Dio entra nella storia, Dio fa grazia, Dio prende carne, la carne di un uomo. Non c’è nulla di più bello di quel sussulto che Elisabetta prova dentro di sé, sentendo che il bimbo che è dentro di lei esulta di gioia. Forse perché questa festa mette l’accento proprio sul nostro corpo, che è come il corpo della Vergine Maria. In effetti quel Dio che si è fatto uomo chiede ad ognuno di noi di amarlo e di amare i nostri fratelli. Ma dove passa, si manifesta, si concretizza questo amore? Attraverso il nostro corpo, attraverso le nostre mani e le nostre braccia, il nostro volto, attraverso il calore fisico che siamo in grado di comunicare… L’Assunzione non è una sorta di masso erratico nel panorama delle verità della fede, ma è la logica conseguenza dell’incarnazione. Il nostro corpo è destinato ad essere trasfigurato dalla gloria di Dio perché ha partecipato, totalmente, all’avventura della fede e dell’amore.

Assunzione della Beata Vergine Maria

Una festa antichissima. Come riportato sul Messale Romano, questa festa è tra le più antiche ed accomuna, con sfumature differenti, l’Oriente e l’Occidente. La recente definizione dogmatica (1950) non è dunque una innovazione, ma un riconoscimento di una lunghissima tradizione, prima di tutto rituale.
Celebrare la Madre di Dio significa sempre rinnovare la nostra fede nel Cristo, entrare nel mistero cristologico con una sfumatura particolare.
Oggi celebriamo la preziosità del corpo umano (e femminile) nella spiritualità cristiana, la cura di Dio per la Madre, il mistero della morte e divinizzazione promesso nel battesimo ad ogni persona in Cristo.
L’abbondanza dei temi ci aiuti a ritrovare il cuore del messaggio evangelico.

In questo mistero sono presenti cinque dimensioni:

  • Aspetto soteriologico: Maria come frutto della redenzione, di ciò che Dio può operare in noi.
  • Aspetto cristologico: tutti parteciperemo al Corpo mistico del Cristo risorto.
  • Aspetto antropologico: crediamo la risurrezione della carne, e questo dice la dignità sublime del corpo umano. Si può notare che lo si dice in primis di un corpo femminile, da sempre e ancora oggi non rispettato.
  • Aspetto ecclesiologico: tutta la chiesa aspira a essere come Maria.
  • Aspetto mariologico: Dio è fedele alla promessa di cura fatta alla giovane di Nazaret, condotta attraverso una vita non facile, fino alla partecipazione piena alla gloria del Figlio.

Un esempio narrativo (3)

Immersi in questi pensieri, i vecchi monaci cominciarono a trattarsi fra di loro con straordinario rispetto poiché esisteva la possibilità, per quanto remota, che il Messia fosse tra di loro.
E per la possibilità, ancor più remota, che il Messia fosse ciascuno di loro, ognuno cominciò a trattare se stesso con altrettanto rispetto.
Accadeva che di tanto in tanto alcuni visitatori si trovassero da quelle parti, quando senza nemmeno rendersene conto cominciarono ad avvertire l’alone di straordinario rispetto che circondava i cinque vecchi monaci, c’era qualcosa di straordinariamente affascinante, persino irresistibile. I visitatori cominciarono a tornare per fermarsi a pregare, portarono gli amici e gli amici portarono altri amici.
Accadde così che qualcuno di loro iniziò a intrattenersi sempre più frequentemente con i monaci.
E dopo qualche tempo uno chiese di potersi unire a loro. Poi un altro e un altro ancora.
Così, nel giro di pochi anni, il monastero riprese a ospitare un ordine prosperoso e, grazie al dono del rabbino, tornò a essere un vivo centro di luce e di spiritualità

Un esempio narrativo (2)

Quando l’abate tornò al monastero i monaci gli si radunarono intorno e gli chiesero: «Ebbene, cosa ti ha detto il rabbino?». «Non è stato in grado di aiutarmi», rispose l’abate. «Abbiamo soltanto pianto insieme e letto la Torah. L’unica cosa che mi ha detto, proprio mentre me ne stavo andando, è stato qualcosa di oscuro. Ha detto che il Messia è tra noi. Ma non so cosa intendesse».
Nei giorni, nelle settimane, nei mesi che seguirono, i vecchi monaci rifletterono su questa frase chiedendosi se le parole del rabbino avessero un qualche particolare significato. Il Messia è tra noi? Voleva forse dire che il Messia è uno di noi? E se è così, chi? Intendeva forse l’abate? Si, se si riferiva a qualcuno, probabilmente si riferiva all’abate. Ci ha guidati per più di una generazione. D’altra parte avrebbe anche potuto riferirsi a fratello Thomas. Sicuramente fratello Thomas è un sant’uomo. Tutti sanno che Thomas è un uomo illuminato. Certamente non poteva riferirsi a fratel Elred! A volte Elred è irascibile.
È una spina nel fianco per tutti, anche se praticamente ha sempre ragione.
Chissà se il rabbino non intendesse proprio fratel Elred. Ma sicuramente non fratel Phillip. Phillip è così passivo, una vera nullità. Eppure ha il dono di essere sempre presente quando c’è bisogno di lui.Forse il Messia è proprio lui. Non è proprio possibile che intendesse me. Io sono una persona qualsiasi. Eppure se fosse proprio così? Se fossi io il Messia? Oh no, non io. Non potrei essere così importante per Te, non è vero?

Un esempio narrativo (1)

La storia racconta di un monastero che stava vivendo tempi difficili. In passato aveva ospitato un ordine importante, ma in seguito a un’ondata di persecuzioni antimonastiche verificatesi nel diciassettesimo e diciottesimo secolo e a una crescente tendenza verso il secolarismo nel diciannovesimo secolo, tutti i suoi conventi secondari erano andati distrutti e l’ordine era rappresentato soltanto dall’abate e altri quattro monaci, tutti ultra settantenni, che vivevano nella cadente abbazia. Era chiaramente destinato a scomparire.
Nel fitto bosco che circondava il monastero, si trovava una piccola capanna che un rabbino proveniente da una città vicina usava di tanto in tanto come eremo. L’abate decise di recarsi all’eremo e di chiedere al rabbino se non avesse alcun consiglio da dargli per salvare il monastero.
Il rabbino accolse l’abate nella capanna, ma quando l’abate gli spiegò lo scopo della sua visita, il rabbino non poté far altro che condividere il suo dolore. Così si lamentarono insieme il vecchio abate e il vecchio rabbino. Poi lessero alcuni brani dalla Torah e presero a conversare serenamente di profonde questioni spirituali. Venne per l’abate il momento di andarsene e i due si abbracciarono. «È stato meraviglioso incontrarsi dopo tutti questi anni», disse l’abate, «ma venendo qui non ho raggiunto il mio scopo. Non c’è nulla che puoi dirmi, nessun consiglio che puoi darmi, per aiutarmi a salvare il mio ordine dalla morte?». «No, mi dispiace», rispose il rabbino, «non ho consigli da darti. L’unica cosa che posso dirti è che il Messia è tra voi».