Quando parliamo di ambiente, del creato, il mio pensiero va alle prime pagine della Bibbia, al libro della Genesi, dove si afferma che Dio pose l’uomo e la donna sulla terra perché la coltivassero e la custodissero (cf. 2,15). E mi sorgono le domande: Che cosa vuol dire coltivare e custodire la terra? Noi stiamo veramente coltivando e custodendo il creato? Oppure lo stiamo sfruttando e trascurando? Il verbo “coltivare” mi richiama alla mente la cura che l’agricoltore ha per la sua terra, perché dia frutto ed esso sia condiviso: quanta attenzione, passione e dedizione! Coltivare e custodire il creato è un’indicazione di Dio data non solo all’inizio della storia, ma a ciascuno di noi; è parte del suo progetto; vuol dire far crescere il mondo con responsabilità, trasformarlo perché sia un giardino, un luogo abitabile per tutti. Noi, invece, siamo spesso guidati dalla superbia del dominare, del possedere, del manipolare, dello sfruttare; non la “custodiamo”, non la rispettiamo, non la consideriamo come un dono gratuito di cui avere cura.
Il “coltivare e custodire” non comprende solo il rapporto tra l’uomo e il creato, ma riguarda anche i rapporti umani. Quello che comanda oggi non è l’uomo, è il denaro, i soldi comandano. E Dio nostro Padre ha dato il compito di custodire la terra non ai soldi, ma a noi: agli uomini e alle donne. Noi abbiamo questo compito!
Invece, uomini e donne vengono sacrificati agli idoli del profitto e del consumo: è la “cultura dello scarto”. Se si rompe un computer è una tragedia, ma la povertà, i bisogni, i drammi di tante persone finiscono per entrare nella normalità. Se in tante parti del mondo ci sono bambini che non hanno da mangiare, quella non è notizia, sembra normale. Non può essere così! Eppure queste cose entrano nella normalità: che alcune persone senza tetto muoiano di freddo per la strada non fa notizia. Al contrario, un abbassamento di dieci punti nelle borse di alcune città, costituisce una tragedia. Uno che muore non è una notizia, ma se si abbassano di dieci punti le borse è una tragedia! Così le persone vengono scartate, come se fossero rifiuti.
Questa “cultura dello scarto” tende a diventare mentalità comune, che contagia tutti. La vita umana, la persona non sono più sentite come valore primario da rispettare e tutelare, specie se è povera o disabile, se non serve ancora, come il nascituro, o non serve più, come l’anziano.
Questa “cultura dello scarto” ci ha resi insensibili anche agli sprechi e agli scarti alimentari, che sono ancora più deprecabili quando in ogni parte del mondo, purtroppo, molte persone e famiglie soffrono fame e malnutrizione». È chiara la valenza morale di consapevolezza della responsabilità di un uso non distruttivo né egoistico della natura e della necessità di giungere ad una distribuzione più equa delle risorse del creato, quale emerge dagli ultimi decenni di magistero, che ha intensificato gli interventi.
«L’ambiente naturale è stato donato da Dio a tutti, e il suo uso rappresenta per noi una responsabilità verso i poveri, le generazioni future e l’umanità intera».
«Viviamo in un giardino affidato alle nostre mani»: ricordarlo ai propri figli nel quotidiano è un compito urgente affidato ai genitori. È un’impresa che può essere realizzata con alcuni semplici suggerimenti declinabili in tre prospettive: la cultura della custodia si fonda sulla gratuità, sulla reciprocità e sulla riparazione del male.
Gratuità è la prima prospettiva per innestare un legame di libertà con le persone e le cose e cambiare lo sguardo sulle cose. Tutto diventa intessuto di stupore. Da qui sgorga la gratitudine a Dio, che esprimiamo nella preghiera a tavola prima dei pasti, nella gioia della condivisione fraterna, nella cura per la casa, la parsimonia nell’uso dell’acqua, la lotta contro lo spreco, l’impegno a favore del territorio.
Reciprocità, perché in famiglia si impara il rispetto della diversità. Ogni fratello, infatti, è una persona diversa dall’altra. La purificazione delle competizioni fra il maschile e il femminile fonda la vera ecologia umana. In questa visione nasce quello spirito di cooperazione che si fa tessuto vitale per la custodia del creato, in quella logica preziosa che sa intrecciare sussidiarietà e solidarietà, per la costruzione del bene comune.
Infine, la riparazione del male compiuto da noi stessi e dagli altri, attraverso il perdono, la conversione, il dono di sé. Si impara a condividere l’impegno a “riparare le ferite” che il nostro egoismo dominatore ha inferto alla natura e alla convivenza fraterna. Da qui, dunque, può venire un serio e tenace impegno a riparare i danni provocati dalle catastrofi naturali e a compiere scelte di pace e di rifiuto della violenza e delle sue logiche.
In un’epoca segnata da una forte tendenza individualistica, avvertiamo la necessità di educare alla cittadinanza responsabile, alla ricerca del bene comune con la fantasia della carità (compreso il compito urgente per salvaguardia della sacralità della domenica). L’educare al creato diventa scuola di gratuità e di stupore per la bellezza della vita. Perché c’è una grammatica da rispettare, che non creo ma scopro, già presente prima di me. La dobbiamo solo “custodire”, perché possa fiorire in bellezza e freschezza».