Giovedì Eucaristico

Adorare Gesù nel Santissimo Sacramento è la risposta di fede e di amore a Colui che essendo Dio, si è fatto uomo, si fece nostro Salvatore , ci ha amati fino a donare la sua vita per noi e continua ad amarci di amore eterno. È il riconoscimento della misericordia e della maestà del Signore, che ha scelto il Santissimo Sacramento per rimanere con noi fino alla fine del mondo.
Il cristiano adorando Cristo riconosce che Egli è Dio, adorandolo davanti al Santissimo Sacramento testimonia la sua Presenza reale , vera e sostanziale nell’Eucaristia. Coloro che adorano non solo compiono un atto sublime di devozione, ma anche danno testimonianza del più grande tesoro che ha la Chiesa , il dono di Dio stesso, il dono che fa il Padre del Figlio, il dono di Cristo di se stesso, il dono che proviene dallo Spirito: l’Eucaristia. Se la comunione sacramentale è prima di tutto un incontro con la Persona del mio Salvatore e Creatore, l’adorazione eucaristica è una estensione di tale riunione. Adorare è un modo sublime per rimanere nell’amore del Signore.
Chi adora da testimonianza d’ amore, dell’amore ricevuto e dell’ amore ricambiato, e molto di più da testimonianza della propria fede. È lo stupore di chi sa che Dio è qui.

La Samaritana (2)

Anche noi sentiamo il bisogno di acqua fresca, acqua che disseta, acqua pura. Anche noi, come la Samaritana al pozzo, ci sentiamo delusi, preoccupati, impauriti e anche spaventati. Anche noi oggi, come la Samaritana, andiamo ad abbeverarci nel momento meno affollato della giornata, lei per paura di incontrare le persone e di essere giudicata e noi per paura di un incontro che possa contagiare. Andiamo al Pozzo, luogo dell’incontro per eccellenza e non c’è nessun altro oltre il Signore … “Dammi da bere”, il Signore oggi ci parla nella nostra piazza deserta, parla a ciascuno di noi e, come avvenuto con la Samaritana, ci chiama per nome, al di là della nostra storia, dei nostri peccati, delle nostre debolezze, fragilità e sofferenze …
“Come mai chiedi da bere a me?” L’incredulità della Samaritana è la nostra, ma il Signore non esita. Ci richiama e ci interroga, ci sfida ad addentrarci nel vivo di quanto stiamo vivendo.
In questo brano ci pare di sentire forte il richiamo anche per noi, “Ascolta…fidati”, «Sono io, che parlo con te» … In questa Quaresima il Signore ci dice “vieni alla Sorgente, al Pozzo e riempi la brocca” … La Samaritana è la rappresentazione di ognuno di noi quando ci rassegniamo a una vita quotidiana, quando ci accontentiamo della nostra fatica di attingere acqua del pozzo per
una giornata e basta; quando ci infastidiamo di richieste che ci scomodano; quando giudichiamo; quando ci affanniamo con supponenza a voler risolvere le nostre cose pensando di essere sufficienti a noi stessi. Proprio in questo momento il Signore viene; ci porta oltre la nostra quotidianità e la nostra banalità e ci invita ad andare oltre noi stessi, a trovare il meglio di noi.
Anche noi abbiamo tante domande da porre …! La Quaresima è il tempo opportuno per guardarci dentro, far emergere i nostri bisogni spirituali più veri e chiedere l’aiuto del Signore nella preghiera. In questo tempo di Grazia ci pare che il Signore ci chiami a restare ancora più vicini a Lui. Un’opportunità? Forse sì! Questa occasione ci aiuti a rinnovarci e convertirci nel profondo e a
ritrovare una fede ancora più forte.

La Samaritana (1)

La terza domenica di Quaresima, il Vangelo ci presenterà l’incontro di Gesù con la donna di Samaria. Il luogo dell’incontro, dell’evangelizzazione è il Pozzo: le profondità del nostro cuore dove sappiamo essere deposta, fresca e fremente, una promessa di felicità, la nostra promessa di felicità: ciò che inqueta il nostro cuore, ciò che lo fa vibrare e sperare.
Un pozzo: nel brano del Vangelo è il pozzo che Giacobbe aveva scavato per la sua famiglia e il suo bestiame. Nella nostra vita c’è sempre un dono tramandato, un dono che qualcuno ha pensato per chi gli sarebbe succeduto nel tempo, per i suoi figli e i figli dei figli…
Un pozzo è un potenziale in grado di dissetare: l’unica discriminante è avere di che attingere. Il bisogno (tragico) nel bisogno è quello sperimentato da chi è sì al pozzo, ma non ha un’anfora da calarvi. Dio si presenta così com’è: forse ci sembrerà scandaloso, ma non ha ciò che gli permetterebbe di attingere alla nostra acqua! Dio non fa irruzione nella nostra intimità.
Si siede e attende che arriviamo, vive senza vergogna quel che noi spesso non sappiamo fare: tende le mani e chiede “Dammi da bere”. L’inizio della nostra relazione con Lui è il suo desiderio bruciante: il suo “bisogno di noi”. Ha sete di renderci giustizia, di restituirci alla dignità di figli, ha sete di riversare in noi il suo Spirito come acqua copiosa, come speranza che non delude.
Non sempre riusciamo a dare alla nostra sete il suo vero nome, non sempre riusciamo a capire di che cosa abbiamo davvero sete e ci illudiamo di aver trovato una nuova oasi nel deserto. Dio ci attende non nell’oasi, ma al nostro pozzo. Perché? Perché abbiamo bisogno di adorare: di baciare (adorare significa stare bocca a bocca) lo Sposo giusto, non l’ennesimo amante che delude il nostro desiderio profondo di pienezza, di quell’amore stabile e sempre nuovo che regge ogni urto. Quali desideri giacciono in fondo al tuo pozzo? Di che cosa hai sete?

La via Crucis

La Via Crucis: questa forma di meditazione ci aiuta non solo a ricordare le sofferenze di Cristo, ma a scoprirne, in qualche misura, la profondità, la drammaticità, il mistero, sommamente complesso, dove il dolore umano nel suo più alto grado, il peccato umano nella sua più tragica ripercussione, l’amore nella sua espressione più generosa e più eroica, la morte nella sua più crudele vittoria e nella sua definitiva sconfitta… acquistano l’evidenza più impressionante. Chi cammina spera. Chi non cammina più è stanco o disperato.
Il cammino della croce è il “cammino della speranza”, perché è un cammino sulle orme di Cristo, in compagnia di Maria, “pellegrina della fede” e Madre della speranza. Il nostro è un “cammino difficile”, è l’Esodo, è il cammino della Croce. È sicuro il “punto di partenza”: l’amore di Dio che ha portato il Figlio sulla Croce. È sicuro il punto di arrivo: la gloria della risurrezione. La Via Crucis è un “camminare” e sostare: per contemplare, pregare, riposarsi in Dio e riprendere fiato, per camminare ancora fino al traguardo. In Dio. Per camminare sulle orme di Cristo servono le tre virtù teologali, le “tre figlie di Dio”: la fede che è “sposa fedele”, la carità che è “madre feconda e generosa”, ma soprattutto, la speranza, la “sorella piccolina”, che “trascina tutto” e ci aiuta a “varcare la soglia” in Cristo.

8 Marzo: il senso di una festa

In occasione della “Festa della donna” ho trovato particolarmente bello, profondo e ricco di riflessioni il commento di una suora di clausura.
Non riguarda solo la dignità della donna in generale, bensì parla del fatto che tale dignità deve essere prima di tutto riconosciuta e rispettata dalla donna stessa. La donna deve assumersi in prima persona la responsabilità di far emergere e rispettare la propria dignità. La donna deve diventare sempre più protagonista e artefice della sua vita e del suo futuro creando una convivenza equilibrata e armoniosa, portatrice ed educatrice di valori profondi per sé e poi per la società in cui vive.

Così scrive la claustrale: «Che le donne facciano sentire la loro voce e richiamino l’attenzione su quanto di loro si pensa, si dice e soprattutto si propaganda, per manifestare il loro dissenso e le loro ragioni, lo ritengo legittimo, ma nello stesso tempo spererei vivamente che la donna stessa abbia giusta consapevolezza della dignità che vuole affermare e idee chiare sulla sua identità e capacità di progettazione della propria vita. Cosa che, francamente, non mi sembra essere sempre certa nel nostro contesto sociale.
Mi sembra infatti che essere donna, e donna emancipata, attualmente si identifichi il più delle volte con l’equiparazione di ruoli e poteri rispetto all’uomo. Tanto che non è raro sentire parlare di cifre sulla partecipazione femminile agli incarichi di rappresentanza o di alto livello a dimostrazione della sua posizione culturale ancora minoritaria. Ma il problema è a monte: se anche la donna giungesse ai vertici delle più brillanti carriere – cosa che cordialmente le auguro e talora, di fatto, già avviene – desidererei comunque che il suo modo di essere e di porsi fosse di timbro diverso, femminile appunto (il che non vuol dire inferiore, ma di altra qualità), arricchendo ogni ambito culturale, politico e sociale della sua specifica forma di umanità e sensibilità. Per il suo profondo rapporto con la vita, il suo intuito e la sua capacità di osservazione, per l’attenzione all’umano e le connaturali doti di generosità, la donna è infatti, a mio avviso, portatrice privilegiata di originalità, di innovazione e creatività, nonché di bellezza nel senso più filosofico ed estensivo del termine.
In tutta sincerità non trovo convincenti né interessanti le donne che imitano la figura maschile mostrando una sicurezza talora aggressiva che indurisce il loro tratto, oppure ostentando una spregiudicatezza di comportamenti e di toni che le omologa a un modello quanto mai dissonante dal loro fondamento antropologico. Perché, tra l’altro, una delle questioni connesse al valore, o disvalore della donna oggi, è quella dello smantellamento di quella compostezza, o meglio pudore (parola obsoleta nella nostra cultura, se non all’indice) che custodisca ma anche sveli in certo senso il mistero profondo della persona».

A tutte le donne che festeggeranno l’8 marzo l’augurio di sperimentare la bellezza e la grandezza del proprio essere donne e madri di nuove generazioni di uomini e donne, che in piena sintonia vivono nel rispetto e apprezzamento reciproco per la costruzione di una nuova umanità così come è stata pensata e voluta dal Creatore.

“Invitiamo le comunità a pregare per la pace”

Pubblichiamo una nota della Presidenza della Cei, a un anno dall’invasione russa dell’Ucraina.

Il grido accorato di Papa Francesco scuote le coscienze e chiede un impegno forte a favore della pace: è tempo di trovare spazi di dialogo per porre fine a una crisi internazionale aggravata dalla minaccia nucleare. Ad un anno dall’invasione russa di uno Stato indipendente, l’Ucraina, vogliamo tornare a ripetere il nostro “no” deciso a tutte le forme di violenza e di sopraffazione, il nostro “mai più” alla guerra. Per questo, invitiamo le comunità ecclesiali ad unirsi in preghiera per invocare il dono della pace nel mondo.
In Ucraina, così come in tanti (troppi) angoli della terra risuona infatti l’assordante rumore delle armi che soffoca gli aneliti di speranza e di sviluppo, causando sofferenza, morte e distruzione e negando alle popolazioni ogni possibilità di futuro. Sentiamo come attuale l’appello lanciato sessant’anni fa da san Giovanni XXIII nell’Enciclica Pacem in terris: «Al criterio della pace che si regge sull’equilibrio degli armamenti, si sostituisca il principio che la vera pace si può ricostruire nella vicendevole fiducia» (n. 39).
Se da una parte è urgente un’azione diplomatica capace di spezzare la sterile logica della contrapposizione, dall’altra tutti i credenti devono sentirsi coinvolti nella costruzione di un mondo pacificato, giusto e solidale. Il tempo di Quaresima ci ricorda il valore della preghiera, del digiuno e della carità, le uniche vere armi capaci di trasformare i cuori delle persone e di renderci “fratelli tutti”.
Aderendo all’iniziativa del Consiglio delle Conferenze Episcopali d’Europa, invitiamo a celebrare venerdì 10 marzo una Santa Messa per le vittime della guerra in Ucraina e per la pace in questo Paese. Sarà un’occasione per rinnovare la nostra vicinanza alla popolazione e per affidare al Signore il nostro desiderio di pace. Chiedere la conversione del cuore, affinché si costruisca una rinnovata cultura di pace, sarà il modo in cui porteremo nel mondo quei germogli della Pasqua a cui ci prepariamo.

La parola all’arte: Viandante sul mare di nebbia

1818 – Caspar David Friedrich—Hamburger Kunsthalle di Amburgo

Questo dipinto è una delle opere più rappresentative della pittura romantica e pur essendo utilizzato nei più svariati contesti conserva sempre un fascino straordinario! Soffermiamoci sul protagonista di questo dipinto: un uomo in piedi, di spalle, che osserva il paesaggio dall’alto di un monte: un viandante che porta appunto già nel nome l’idea del percorso, di una ricerca senza fine che si perde nei misteri della vita. Il viandante è come sospeso in un momento magico e mistico in cui perdendosi nella contemplazione del paesaggio si immerge in una complessa meditazione sull’uomo, sulla natura, sull’infinito, su Dio. La sua postura però non indica una statica contemplazione del paesaggio, quanto la sosta necessaria per “studiare la prossima mossa”. Un uomo di spalle, senza volto, perché ognuno di noi è il viandante sul mare di nebbia; ognuno di noi è quel viandante che pur ammirando il paesaggio che lo circonda sta cercando di capire da che parte andare. Le tre dimensioni del tempo sono racchiuse in questo dipinto: il viandante è il presente che vive, che osserva; il passato è la roccia scura, la salita che lo ha portato fino a lì; il futuro è il mare di nebbia ai suoi piedi, la foschia che aleggia sul cammino che lo attende. Ma il suo sguardo, oltre la nebbia, si posa sui monti visibili in lontananza, su un altro panorama da contemplare, sulla meta da raggiungere! Il viandante è desiderio, speranza, coraggio, è il senso di paura mista a determinazione, è la difficoltà e il suo superamento.
Quel viandante rappresenta il senso della vita, è l’intuizione della silenziosa presenza di Dio.
Il viandante dovrà scendere dal monte per proseguire il cammino, affrontare e superare nebbie ed ostacoli, ma ha già scorto la meta e sa di non essere solo nel suo viaggio!

La trasfigurazione (3)

Stare è il verbo della fedeltà, della presenza, della comunione inossidabile.
È risposta al desiderio di Gesù: «Rimanete in me… rimanete nel mio amore».
Sul monte Dio e l’uomo si danno appuntamento da sempre: Dio scende, l’uomo sale, in «un movimento a fisarmonica» che emette melodie di ricerca, desiderio, passione, comunione.
Dio e l’uomo si cercano e si trovano in un presente che non è disconnesso né dal passato (rappresentato da Mosè ed Elia), né dal futuro (la gloria eterna). In Cristo Dio e l’uomo coabitano in un connubio mirabile; per mezzo di Cristo Dio e l’uomo si incontrano, si parlano, sperimentano la più dolce delle amicizie. In Cristo la luce divina rifulge radiosa nella fragilità della carne segno che il corpo è sacro, è tempio, è casa di Dio.

La trasfigurazione (2)

Come il ramo del mandorlo che germoglia segna l’inizio della primavera, così la trasfigurazione si presenta come la pregustazione del Cielo e della gloria della Risurrezione. Nei Vangeli essa appare come un evento di grazia in cui all’uomo, fragile e impaurito dalla prova e dalla croce, è dato di ossigenare mente e cuore e di ricevere una spinta a salire oltre la ripetitività del quotidiano. È l’esperienza che vivono i discepoli, tre uomini che sono icona della sequela Christi, ma anche icona dell’umano spesso lento a decifrare parole ed eventi. La trasfigurazione è un’esperienza che ricorda all’uomo il suo destino e ricorda che la luce divina abita i travagli della nostra storia personale e collettiva, che Dio e l’uomo possono sperimentare un sabato comune. La vita è salita, fatica, ritmo incalzante di avvenimenti, ma Dio concede momenti sabbatici, momenti dove il tempo, che fagocita l’uomo e lo rende schiavo dello spazio, cede il posto alla Grazia, che libera l’uomo dalla tirannia delle cose; momenti dove tutto si distende e si può gustare la bellezza dello stare l’uno alla presenza dell’altro in uno spazio che non soffoca, non costringe, non delimita.

La trasfigurazione (1)

Tra i racconti della vita di Cristo vi è un evento che ci invita a fermarci, a disconnetterci dal turbinio dei nostri andirivieni e sostare nella contemplazione di una bellezza che rapisce, che incanta, che conquista: la trasfigurazione. La vita umana non procede per obblighi o imposizioni, ma per fascinazione di bellezza. Non ci attrae ciò che ci costringe, ma ciò che ci fa intuire un’esperienza di liberazione, che intercetta i nostri sensi, che scava dentro e pianta un seme di passione. Non ci attrae ciò che rappresenta sottrazione o divisione, ma ciò che prospetta addizione, moltiplicazione. La trasfigurazione di Gesù alla presenza di tre dei suoi discepoli è un episodio che mostra come l’uomo subisca fortemente il fascino della bellezza e sia attratto da ciò che lo apre al mistero, al “di più”, alla pienezza di vita. L’evento vissuto sul monte ha il sapore dell’irruzione dell’eternità nel tempo, dell’infinito nello spazio, del divino nel tessuto dell’umano, irruzione che riossigena la storia e la proietta verso il suo compimento.